A Roma aveva quasi detto “basta, smetto”. Lo ritroviamo a Parigi, a dettare l’ennesima impresa: più di 4 ore per battere Djokovic. Ancora una volta, dopo 17 anni
C’è stata una notte romana, nemmeno tre settimane fa, in cui Rafa Nadal ha quasi detto “basta”. Che non ne può più degli infortuni, del dolore, della fatica, di star dietro al fisioterapista come fosse un avversario imbattibile. Aveva appena perso da Shapovalov, alla fine di un terzo set giocato su un piede solo. Era uscito dal Centrale del Foro Italico saltellando furioso. Quelli dell’Atp non avevano nemmeno provato, a trattenerlo, a farlo rifiatare. Nadal aveva imboccato il tunnel, fatto le scale a due a due e invaso la sala stampa con i giornalisti che inseguivano affannati, loro sì, l’annuncio della conferenza immediata. Avesse respirato, anche solo un quarto d’ora, avrebbe resistito alla tentazione irrazionale di sfogarsi in pubblico. Di elaborare quell’intimo lutto – l’infortunio, il dolore, l’età che avanza – davanti alle telecamere. Aveva preso a parlare come un flusso di coscienza a sfiatamento ridotto, una valvola socchiusa che virava dal possibile annuncio fatale – “smetto” – al graduale rinsavimento: “Ho ancora voglia di combattere”. Tutto in un quarto d’ora. I giornalisti volteggiavano sulla notizia, alcuni gliela imbeccavano quasi, ma no: Nadal stava resettando in pubblica piazza, come se quella sconfitta valesse una volée sbagliata. Si stava voltando, rimettendo in ordine la sua geometrica disposizione delle borracce, risistemando la capigliatura dietro le orecchie e via con la routine di gesti che per anni abbiamo malinterpretato come tic. E senza dirlo stava dicendo: io sono infinito.
Il Nadal che si presenta ai quarti di finale del Roland Garros tre settimane dopo aver detto “non so se ce la farò”, dopo cinque set contro Auger Aliassime, al cospetto del suo rivale di sempre, proprio lì dove quella storia era cominciata 17 anni prima, e lo batte dopo 4 ore e spiccioli di tennis tra dominio e rimonta, è ri-nato a Roma. Come fosse figlio di se stesso. Una nuova creatura capace di ammutolire Nole Djokovic che si credeva già al quinto, in vantaggio fisico e psicologico. Arrivati a questo punto non si sa più in che termini scriverne: la retorica del “miracolo” era già esausta tipo 10 anni fa.
A fine marzo Ángel Ruiz Cotorro aveva ricevuto Nadal nella sua clinica di Barcellona per curare la lesione al terzo arco costale patita durante le semifinali di Miami. Quel percorso di guarigione che gli ha tolto la sacra preparazione, trasportandolo direttamente in campo, a Madrid e poi a Roma e infine a Parigi, s’è ridotto infine a poche partite. La ricaduta – se così può chiamarsi quel piede ormai patologicamente dolorante – avrebbe compromesso la stagione di chiunque e l’obiettivo del 2022: la quattordicesima Coppa al Roland Garros. Chiunque, appunto. Non lui.
“Non sono una vittima e non voglio dare una visione negativa della mia situazione. Vivo con gli anti-infiammatori per potermi allenare”, aveva detto a Roma.
“Spero che la mia testa mi permetta di accettare che i miei giorni sono così, fino a quando la mia testa non mi dirà basta, che non si può vivere con così tanto dolore ogni giorno. Lo dico col cuore, gioco per essere felice, ma il dolore ti rovina la felicità, non solo per il tennis ma per la vita”.
Sono cambiate le parole d’ordine, già da un po’: felicità, vita. Nadal ha perso i paraocchi, le ossessioni si sono addolcite. Inquadrato dall’alto ha i capelli che si diradano, una piazza al centro e una riga che attacca troppo alta. E’ sempre più sofferente, doloroso, sudato. Il problema suo – non certo nostro – è che s’è scelto un impiego a tempo indeterminato, una missione a oltranza. Ovviamente tutti sanno che l’ora arriverà, smetterà di illuderci. E non passa intervista che non ci avverta, premuroso.
Intanto però le statistiche hanno abdicato, sono in auto-aggiornamento automatico, i numeri hanno perso precisione e ora cantano, sono letteratura. La faccia stravolta di Djokovic, sconfitto, era una visione laterale della stessa vicenda. Per Nadal l’agonismo, quel disperato attaccamento alla vittoria, la forza di volontà, la tigna, sono un valore estetico. La sostanza è forma, è stile. Nadal che soffre è uno stato dell’arte. Non l’avesse già presa David Foster Wallace per tradurre in termini terreni “l’esperienza del tennis di Roger Federer”, Nadal avrebbe una religione tutta sua.