Al Fatto «Il mio automobilismo è morto. Il pilota più folle era Senna. Enzo Ferrari trattava i piloti come accessori, il suo unico obiettivo era vincere»
Il Fatto Quotidiano intervista l’ex pilota automobilistico Ivan Capelli. Ha 59 anni, è stato anche in Ferrari. Oggi fa il telecronista Rai. E’ il protagonista del film documentario Natural Born Driver, che sarà trasmesso in autunno su Sky Documentaries.
«In realtà nasco calciatore. Ma ero alto un metro e un barattolo, e già allora le società di pallone cercavano giocatori formati fisicamente. Nel film non c’è, ma la carriera si è fermata dopo un match tra la mia Pro Sesto e l’Inter. Rivedo quel momento, quando prima dell’inizio della partita guardo gli undici dell’altra squadra, li scruto, li studio e soprattutto cerco di capire quale sarà il mio diretto avversario. Io giocavo terzino destro. E a un certo punto arriva un ragazzone, il più grosso di tutti e, poco dopo, proprio quel ragazzone si gira: sulla schiena leggo il “numero 2”. Era lui: quel giorno non ho toccato palla anche perché contro avevo Beppe Bergomi; forse, e sottolineo forse perché non lo ricordo, aveva già i baffi. È l’incubo che metaforicamente ha deciso la mia vita».
Da cosa si vede un pilota?
«Dal coraggio; uno deve conoscere i propri limiti e andare oltre, poi ogni pilota crede, anzi è convinto, che non ti possa accadere nulla».
E davanti a un incidente mortale?
«Sono solo battute di arresto; quando correvo in Germania, nel campionato Gran Turismo, è morto il mio compagno di squadra e lì ti senti svuotato. Poi ho ricominciato. Era più forte il desiderio di riprovare certe emozioni».
Nel film c’è anche un Ayrton Senna giovanissimo.
«Correre con lui è stato un onore. In quegli anni anche per noi piloti era il mito, l’icona alla quale tutti ambivano somigliare. E lo consideravamo immortale».
Ricorda la prima volta in cui vide Senna.
«Ricordo quando il mio meccanico mi ha portato all’Estoril: “Ivan, troverai 150 piloti impegnati in gara: guarda e dimmi chi è il più forte”. Dopo pochi minuti punto il dito su un ragazzino, seduto strano, con il casco giallo: “È lui?”. “Bravo, studialo, copia tutto quello che fa: è il migliore”. Era Ayrton».
Il suo automobilismo sta un po’ morendo?
«Se una famiglia arriva ad acquistare una squadra di F1 e solo per permettere al figlio di correre, significa che il mio mondo è già morto (si riferisce all’imprenditore Lawrence Stroll, ndr)».
E sulla tecnologia:
«Io non avevo neanche il servosterzo; anche qui: Ayrton è stato il primo a capire l’importanza della preparazione fisica per arrivare alla fine della gara con ancora dei margini».
Nato a Milano, in viale Monza, in periferia, è arrivato presto a Montecarlo. Non le è girata la testa?
«All’inizio non mi sono comprato neanche una fuoriserie: viaggiavo con un macchina diesel. Poi la vita evolve. La svolta fu l’incontro con Akira Akagi (imprenditore giapponese, ndr): per partecipare al campionato di F1 mi ha dato quattro milioni di dollari con la sola stretta di mano».
Da anni hanno tolto le donne con l’ombrello: è giusto?
«Sbagliatissimo, hanno ridotto il glamour solo per rincorrere il politically correct».
Quanto ha rimorchiato?
«In pista è successo raramente. Ci sono stati momenti divertenti, ma quando hai 220 litri di carburante nella schiena pensi ad altro. Alla fine ero fisicamente così distrutto da non riuscire a mangiare: la forchetta in bocca ci tornava solo al mezzogiorno del lunedì».
Si è consumato.
«Clavicole rotte, piede ingessato e altre amenità; a quel tempo l’abitacolo era talmente ridotto da obbligarmi a una perenne dieta e niente alcool. Oggi ho tre ernie alla schiena e problemi al collo».
Ha incontrato Enzo Ferrari.
«Fascino totale, emanava mito; parlava come se stesse leggendo un libro, percepivi pure il punto e virgola, e non tutti avevano il privilegio di rivolgergli la parola. Davanti a lui ti sentivi microscopico; quando ho conosciuto Michele Alboreto ho capito che era un pilota particolare solo perché aveva avuto il privilegio di correre cinque anni per lui. In Ferrari c’erano ancora alcuni meccanici che lo avevano conosciuto quando ci andai, raccontavano quanto fosse spietato: il suo unico obiettivo era vincere; i piloti li trattava da accessori».
Il pilota più folle?
«Ayrton: le sue gare sul bagnato restano nella storia. Andava il doppio di tutti gli altri».
Il più sopravvalutato?
«La lista è lunghissima».
Il più donnaiolo?
«Alessandro Nannini è stato il più casinista, ne combinava a ripetizione; ancora oggi non si è calmato».