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D’Amico: «Bernardeschi e Insigne sono all’apice della carriera. La Mls non è più il cimitero degli elefanti»

Al Foglio: «Il futuro del calcio è la Mls. In Italia siamo maledettamente autocelebrativi. Balliamo sul Titanic che affonda, anzi, è già affondato»

D’Amico: «Bernardeschi e Insigne sono all’apice della carriera. La Mls non è più il cimitero degli elefanti»
Db Torino 06/01/2022 - campionato di calcio serie A / Juventus-Napoli / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Lorenzo Insigne-Federico Bernardeschi

Sul Foglio il procuratore Andrea D’Amico spiega perché Insigne, Bernardeschi e company hanno scelto di emigrare nella Mls.

«Il futuro del calcio è la Major League Soccer. Lo dico da quando nel 2015 portai a Toronto Sebastian Giovinco. Qui hanno tutto: organizzazione, strutture, risorse, stadi, sponsor e tanto entusiasmo. Qui il calcio non è solo business, ma un nuovo entusiasmante modo di vita. Qui le guerriglie di casa nostra sono impensabili. Si va allo stadio con tutta la famiglia per la gioia di assistere a un evento sportivo. La partita è il cuore di un intrattenimento, che è diventato un rito. Si beve, si mangia, si ride, si esulta, si stacca la spina e ci si ricarica dopo una settimana di lavoro. A Toronto il calcio è la parte emergente di una dimensione molto più vasta. Vi è un’unica proprietà per le squadre di calcio, di basket, di football canadese e di hockey su ghiaccio. Non dimentichiamo, poi, che nella Greater Toronto Area vivono un milione e mezzo di italiani. Anche per questo il calcio ha stravolto tutte le gerarchie, diventando lo sport più importante».

In Mls non vanno calciatori a fine carriera, dice.

«Giovinco arrivò qui, quando aveva 28 anni. Bernardeschi ha la stessa età, Insigne ne ha 31. Esattamente un anno fa si sono laureati campioni d’Europa con l’Italia e sono entrambi all’apice della carriera. La Mls non è più il cimitero degli elefanti. E il mercato non è più unidirezionale. Basta pensare al texano Weston Mckennie, acquistato dalla Juventus. La tendenza delle nuove grandi proprietà è, peraltro, quella di acquisire squadre in tutte le zone del mondo. Il calcio, lo ripeto da tanto tempo, non conosce più frontiere. Quello che conta è il capitale, l’affidabilità e la qualità delle società. Del resto, accadono cose che solo dieci anni fa sarebbero stato impensabili. Noi i Mondiali li guarderemo da casa. Il Canada li giocherà sul campo».

Nell’intervista D’Amico parla anche dei mali del calcio italiano.

«Sono quelli strutturali. Le regole sono le stesse di 60 anni fa, ma il mondo economico e l’importanza, che nel frattempo ha assunto l’azienda calcio, sono distanti anni luce da quella realtà. Siamo ancorati, ad esempio, al sistema delle promozioni e delle retrocessioni, dove chi retrocede subisce un fallimento economico, oltre che sportivo. Ogni anno spariscono tre o quattro società. Sono falliti il Novara, il Carpi, il Chievo. Tutte squadre che, prima di tornare indietro come i gamberi, erano salite dalla serie C alla A. Erano falliti il Napoli, il Bari e il Palermo. Delle due l’una: o cambiamo sistema o bisogna dare più soldi alle piccole squadre. Altrimenti ogni retrocessione seguiterà a equivalere a un fallimento economico, a una cancellazione talvolta senza ritorno».

E c’è un altro problema:

«Siamo maledettamente autocelebrativi. Noi balliamo sul Titanic che affonda. Anzi su una nave che è già affondata».

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