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Uto Ughi: «Andreotti era un habitué dei miei concerti. Bertinotti mi disse: “non so più chi votare”»

A Sette: «Borges era molto ironico. Mi disse: “Mi sono persuaso che non mi abbiano mai dato un Nobel perché sono convinti di averlo già fatto”».

Uto Ughi: «Andreotti era un habitué dei miei concerti. Bertinotti mi disse: “non so più chi votare”»

Il Corriere della Sera Sette intervista il violinista Uto Ughi. Suona il violino da quando aveva 5 anni e continua a studiare.

«Anche oggi, che ne ho 78, studio per almeno due ore ogni giorno. Anzi, sarebbe meglio dire che “mi alleno”, perché la nostra vita non è così diversa da quella degli sportivi. La musica è anche e soprattutto un fatto fisico».

Si è esibito per la prima volta quando di anni ne aveva 7 ma rifiuta l’etichetta di bambino prodigio.

«In Italia si vede un bambino che suona bene e si pensa al miracolo. Ma se andiamo, per esempio, in Giappone, scopriamo che è una cosa normale. Questione di metodo: lì adottano il Suzuki, una didattica che parte dal presupposto che l’essere umano sia un animale musicale. Che tutti, insomma, nasciamo con la musica nei geni. Basta una buona educazione musicale, cosa che purtroppo in Italia non è così tenuta in considerazione».

Non solo musica classica, parla della musica leggera.

«Se penso ai Beatles, io penso a nobili ascendenze, perché nel loro repertorio si ritrovano anche antichi canti elisabettiani, un genere popolare ma ricco, vario, molto bello. Se penso ai Måneskin, invece… penso che loro siano un fenomeno sociale, forse di moda, ma con la musica c’entrano poco».

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«Non dico che siano dannosi come certi esponenti della cosiddetta trap o del rap, ma dico che la musica è un’altra cosa. Modugno era meglio, ecco, per fare un esempio. Ma anche Lucio Dalla, per non parlare della grandissima Mina. La musica leggera ha un suo spessore e, anche se io sono cresciuto con Bach o Paganini, riesco a riconoscere un pezzo fatto bene. Perché so riconoscere l’idea di fondo, l’originalità, la purezza dell’esecuzione, la bravura nel canto. A me i Måneskin sembrano una band capace di fare tendenza, ma niente di più».

Tra i tanti incontri della sua vita c’è quello con Jorge Luis Borges. Lo descrive come un uomo semplice e umile e soprattutto ironico.

«Era dotato di un’ironia sottilissima. Mi disse: “Vede maestro, io mi sono persuaso che non mi abbiano mai dato un premio Nobel per il semplice fatto che sono convinti di avermelo già dato”».

Non solo scrittori: ha conosciuto anche molti politici, come Andreotti e Bertinotti.

«Giulio Andreotti era un habitué dei miei concerti. Be’, però devo menzionare anche Fausto Bertinotti, che una volta mi rese testimone involontario di un suo cruccio. Ci incontrammo, ci mettemmo a parlare e dopo un po’ mi confessò: “Caro Ughi, ma lo sa che ormai io non so più nemmeno chi votare?”».

Che cosa rappresenta per lei l’idea di felicità?

«Forse si avvicina alla serenità. Ma nella musica è diverso, sa. Ci sono musicisti felici e musicisti che cercano la felicità. Mozart, per esempio, era un artista felice, questo stato di grazia faceva parte della sua identità. I suoi manoscritti non contengono correzioni perché tutto, in lui, faceva parte di un flusso benedetto e inarrestabile. Nulla era forzato. Beethoven, al contrario, era un artista che cercava disperatamente la felicità e, non trovandola, finiva per soffrire. Penso che entrambi rappresentino una grande lezione di vita. La musica non è solo partitura, ma è anche la vita, la biografia degli artisti. E se a scuola la musica non venisse considerata solo un accessorio, ma uno strumento di crescita, penso che la salute e il benessere dei nostri ragazzi se ne avvantaggerebbe molto».

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