Recensione del libro di Quique Peinado, ovvero «il tentativo più esaustivo di parlare di calciatori di sinistra che sia mai stato fatto».
Nell’immaginario collettivo il calcio è da sempre considerato un genere minore, qualcosa di cui occuparsi in maniera superficiale. Ci sono però storie – alcune note, altre meno – che ribaltano questa prospettiva, restituendo una dimensione profonda ed engagé, per dirla alla Sartre, dello sport più seguito al mondo. In questo scenario si colloca “Calciatori di sinistra. Da Sócrates a Lucarelli: quando la politica entra in campo” [ISBN, 21 euro] del giornalista spagnolo Quique Peinado, il primo libro al mondo «scritto su questo preciso argomento, e sicuramente il tentativo più esaustivo di parlare di calciatori di sinistra che sia mai stato fatto». Il testo racconta delle biografie e delle battaglie politiche di diversi calciatori – dai più noti Sócrates, Sollier e Lucarelli, a cui è dedicato grande spazio, passando a Thuram, Carlos Caszley, Javi Poves per concludere con Presas, Tommasi e Ramos. Nel libro però spiccano assenze pesanti, motivo per cui potrà apparire poco esaustivo, ma l’autore chiarisce che le ragioni per le quali non ci sarà traccia di Diego Armando Maradona, Jorge Valdano o Éric Cantona, così come di tanti altri, sono squisitamente legate al rifiuto opposto dai protagonisti a concedere un’intervista.
Peinado dedica grande attenzione all’atteggiamento tenuto da svariati calciatori durante i Mondiali del ‘78, «quando il calcio tacque». Quello disputato in Argentina, sotto la dittatura del generale Videla, divenne «una delle esibizioni più oscene di come il potere poteva utilizzare lo sport per disinnescare moti di reazione di fronte all’ingiustizia e alla morte […] un binomio tra l’infamia ed il pallone a ritmo di tango». La stragrande maggioranza dei calciatori non s’intromise, almeno apparentemente. Ci sono alcune testimonianze, piuttosto confuse, del sostegno offerto da alcuni giocatori svedesi ed olandesi all’associazione “Madres de Plaza de Mayo”. Proprio l’Olanda fu tra i paesi più ostili al regime argentino – basti pensare che alla cerimonia d’inaugurazione, mescolate alle immagini provenienti dallo stadio, le telecamere olandesi mostravano proprio le Madri di Plaza de Mayo che manifestavano – e questo probabilmente contribuì ad orchestrare ai danni degli Orange, la più grande manipolazione del giornalismo sportivo della storia. Come racconta Peinado «la rivista El Gráfico pubblicò una presunta lettera del capitano olandese Ruud Krol indirizzata a sua figlia Mabelle» in cui quello che sarebbe stato idolo e libero Napoli tranquillizzava la bambina sulle sue condizioni di salute, sulla bontà di alcune manifestazioni e soprattutto sul fatto che quella non fosse la Coppa del Mondo, ma la Coppa della Pace. Nonostante la pronta smentita, il giornalista del mensile argentino, Enrique Romero «rettificò, ma solo parzialmente: disse che, effettivamente, la lettera l’aveva scritta lui ma con l’assenso del giocatore, che ne aveva approvato la pubblicazione».
In quel periodo, però, non ci fu solo Videla. Tra dittatori più feroci è possibile annoverare Augusto Pinochet, anche in Cile il calcio, ma lo sport in generale, divenne strumento di propaganda formidabile per il regime. C’è chi però si oppose, come Carlos Caszley, attaccante cileno passato alla storia come “l’uomo che rifiutò di stringere la mano a Pinochet”, prima che la Roja partisse per una partita di qualificazione al Mondiale. Nelle oltre duecento pagine del volume non c’è solo il racconto di chi si oppose alle dittature militari, terra d’elezione del Sud America, ma l’autore ci offre uno spaccato significativo di calciatori che hanno provato a coniugare il calcio con la politica, i palleggi e le rivendicazioni sindacali, i giri di campo e riflessioni appassionate. E’ il caso del francese Just Fontaine che per protestare contro le disparità di stipendi tra lui ed i suoi compagni «nel novembre del 1961, insieme ad un altro gruppo di calciatori di alto livello, fondò la Union nationale des footballeurs professionels [UNFP], il primo sindacato nazionale di calciatori professionisti […] trovarono un grande appaggio mediatico alle loro rivendicazioni da una rivista unica nella storia del calcio: Miroir du Football [Specchio del calcio]. Fondata nel 1960, era pubblicata da J Editions, la casa editrice del Partito comunista francese, e fu il supporto cartaceo ad un calcio ideologizzato e trattato ai più alti livelli giornalistici».
Oppure la storia di Ruben Svensson detto «Röde Ruben», Ruben il Rosso, terzino destro del IFK Göteborg convintamente comunista – scriveva articoli per l’organo del partito, il periodico Proletaren – che rifiutò un ricco trasferimento all’AIK Solna, non potendo accettare che tutto ruotasse intorno ai soldi. «Il progetto della squadra, in cui tutti i giocatori – tranne uno, affiancavano all’attività agonistica un altro lavoro, era quello di dimostrare al paese ed all’Europa che il modello socialdemocratico svedese funzionava. Göteborg era uno dei centri ideologici, e quando nel 1982 Olof Palme tornò alla guida della Svezia, l’IFK si trasformò improvvisamente in un simbolo».
Calciatori di sinistra è anche la storia di Ivan Ergic, giocatore serbo-australiano del Basilea, che nel giugno 2004 cadde in un profondo stato depressivo e fu ricoverato in una clinica psichiatrica. Quasi un anno dopo decise di spiegare le sue difficoltà, di come la competizione che attraversa il calcio sia inesauribile e possa divorarti, a causa di una concorrenza “puramente capitalista”. L’intervistatore ravvisò in quest’affermazione “una piccola critica al capitalismo”, Ergic sorridendo ribatté: «No, è una grande critica al capitalismo. A tal riguardo, devo confessare che una delle mie grandi fonti d’ispirazione è Karl Marx […] Già centocinquant’anni fa Marx ha spiegato le contraddizioni del capitalismo ed i mali provocati dell’accumulazione di denaro. In questo il calcio non è un’eccezione, ed io mi rifiuto di essere un calciatore conformista. Marx ha scritto che il capitalismo avrebbe distrutto la natura umana ed avrebbe portato all’alienazione assoluta. Aveva ragione». In conclusione possiamo ritenere il testo di Peinado è un utile vademecum in una realtà troppo spesso trascurata e volutamente poco indagata, in quanto piuttosto lontana dalla narrazione ricorrente e prevalente, che vuole lo sport condannato ad una dimensione esclusivamente ludica ed i suoi protagonisti unicamente inghiottiti da manifestazioni più frivole di egolatria.