Il nipote Piervittorio a Il Giornale: «Non fece mai la tessera del Partito Fascista, voleva essere un uomo libero. Inventò il ritiro e il «modulo».
Su Il Giornale una lunga intervista a Piervittorio Pozzo, nipote di Vittorio, mitico commissario tecnico della Nazionale italiana che nel 1934 e nel 1938 conquistò la Coppa Rimet.
«I ragazzi di oggi conoscono solo i Mondiali vinti nel 1982 e nel 2006 e nulla sanno dei precedenti. Ma la
responsabilità è di chi ha cancellato le prime due pagine gloriose per paura di compromettersi. Nel caso di mio nonno il rimando al fascismo è solo di ordine temporale. In realtà Vittorio non fu mai fascista».
Non prese mai la tessera del partito fascista?
«Mai. Ci teneva alla sua indipendenza e ripeteva sempre: “Se prendessi la tessera, il giorno dopo il partito si sentirebbe in diritto di impormi la formazione”. Invece le convocazioni le fece sempre con la sua testa, idem per gli undici da schierare in campo. E vuol sapere una cosa che oggi potrebbe sembrare paradossale? Mio nonno si pagava le trasferte di tasca proprio. E non accettò mai lo stipendio. Lavorava completamente gratis. Diceva: “La ricchezza più grande è quella di potersi fregiare del titolo di commissario unico della nazionale italiana“».
Si narra che fosse tifoso del Torino.
«Sì, era di fede granata. Fu tra i fondatori della società e allenò il club per due stagioni. Ma quando si trattava di fare le convocazioni, badava solo a quelli che erano più in forma. Ed era solito privilegiare il blocco juventino».
Dopo la tragedia di Superga, toccò proprio a lui riconoscere i corpi di alcuni dei suoi «ragazzi».
«Fu il giorno più brutto della sua vita. Ricordando quel dramma non riusciva a trattenere le lacrime».
Vittorio Pozzo confessò di leggere preventivamente le lettere ricevute e spedite dai suoi giocatori per accertarsi che ogni scritto fosse “ineccepibile sotto il profilo morale“».
«Oggi un simile comportamento da parte di un allenatore sarebbe inconcepibile. Ma a quei tempi e in quel contesto, perfino questa “norma“ era considerata normale e benaccetta da tutta la squadra».
Per non parlare della “regola“ che imponeva ai giocatori di non leggere i giornali sportivi…
«È vero. Mio nonno spiegò questa imposizione, apparentemente assurda, con l’intenzione di tutelare i suoi ragazzi da ingerenze esterne che ne avrebbero potuto condizionare le prestazioni agonistiche».
Per molti versi fu un rivoluzionario.
«Fu lui l’inventore del “metodo“, uno schema tattico che prima di allora non era mai stato adottato in campo. Inoltre si inventò il “ritiro“ per amalgamare meglio il gruppo e tenere alta la concentrazione pre-gara. Infine fu il precursore del mister in versione super-manager che si occupa della squadra a 360 gradi: dalla logistica all’alimentazione, dai sistemi di allenamento agli “svaghi“ extra calcistici».