Il tecnico ha optato per la strategia dell’attesa. E quando è finita la partita tattica, è emerso Kim: 3 contrasti vinti, 4 tiri respinti e 11 palloni spazzati via
Oltre le statistiche
Milan-Napoli 1-2 è stata una di quelle partite che sfuggono completamente al senso ultimo di questa rubrica – almeno quello ideale. Le statistiche relative alla prestazione, infatti, premiano – anzi: premierebbero – la squadra di Pioli, e per chi vuole approfondire è tutto in questo thread pubblicato su Twitter dall’account SerieAnalytics. Non a caso, viene da dire, l’allenatore del Milan si è detto soddisfatto per la prova dei suoi. Al punto da arrivare a dire che «una squadra che gioca così bene non può perdere». E invece è successo, ed è successo perché la realtà del calcio è molto più sfumata e meno scientifica di quello che crediamo. Si basa certamente sui numeri, sulle evidenze tattiche, ma si nutre anche di sensazioni, di capacità di lettura, di gestione delle situazioni. E il Napoli visto a Milano, da questo punto di vista, è stato una squadra matura, completa, consapevole.
Perché il Milan ha iniziato fortissimo – 4 conclusioni e il 65% di possesso palla nel primo quarto d’ora – eppure il Napoli ha resistito. E infatti l’unica palla gol vera concessa alla squadra di Pioli – il tiro di Giroud su splendido passaggio di Krunic: bravissimo Meret a deviare sulla traversa – è nata da un’uscita sbagliata degli azzurri, da un recupero palla alto su Kvicha Kvaratskhelia da parte di Calabria. Per il resto, il Napoli ha contenuto piuttosto agevolmente l’esuberanza e la tonicità del Milan, e ci è riuscito perché ha approcciato la partita con l’atteggiamento più corretto. Quello descritto in queste immagini e in questi dati:
In alto, il baricentro medio tenuto da Milan e Napoli nel primo tempo; sopra, una fase di attacco posizionale del Milan su cui il Napoli non sale in pressing: pur mantenendo la difesa non troppo schiacciata, la squadra azzurra resta compatta a presidio degli spazi.
La grafica e il frame che vedete sopra mostrano chiaramente che il Napoli ha deciso di non scendere nella stessa arena del Milan, quella del pressing a tutto campo, del baricentro alto e del gioco in transizione. Almeno inizialmente, Spalletti ha optato per una strategia diversa: aspettare i rossoneri, anche a costo di lasciargli un po’ più di possesso palla, rimanendo compatti ma non speculativi; provare sempre a far partire il gioco da dietro spostandolo sulle fasce appena possibile, in modo da limitare le possibilità che il Milan recuperasse il pallone in zone pericolose di campo. I dati, in questo senso, sono eloquenti: il sito specializzato Whoscored ha rilevato che il Napoli ha costruito addirittura l’82% delle sue azioni sulle corsie laterali. Forse su questa scelta, da parte di Spalletti, deve aver pesato anche l’assenza di Leão – e il fatto che Pioli abbia sostituito il portoghese con Krunic.
Fermare Lobotka
Una rilevazione tattica significativa sulla gara di ieri sera è quella che riguarda lo schieramento di Napoli e Milan. Rispetto all’ultimo incrocio, lo 0-1 firmato lo scorso anno da una zampata di Giroud, Pioli e Spalletti hanno rovesciato entrambi il proprio triangolo di centrocampo. Spieghiamola meglio: a marzo scorso, i rossoneri si presentarono al Maradona con un centrocampo 1-2, cioè con un pivote e due mezzali, mentre gli azzurri scesero in campo con due mediani e un trequartista/sottopunta. A San Siro, poche ore fa, è andata in modo esattamente contrario: il Milan si è disposto in campo con un 4-2-3-1 puro in fase di possesso, mentre il Napoli ha optato per il 4-3-3. E stavolta l’interpretazione di questo sistema di gioco, da parte degli azzurri, è stata meno fluida del solito.
Parlando del Milan, la scelta di Pioli si spiega partendo dalla volontà – che poi è una vera e propria necessità, per chi affronta il Napoli – di fermare Lobotka. Di limitarne la libertà in fase di costruzione. Per farlo, il tecnico del Milan si è affidato a De Ketelaere in versione marcatore a uomo, praticamente sempre attaccato al centrocampista slovacco. Non a caso, nel primo tempo il fantasista belga ha toccato solamente 20 palloni: la terza quota più bassa della squadra rossonera dopo quelle di Giroud e Krunic.
Due momenti diversi del primo tempo con De Ketelaere che segue Lobotka come un’ombra. Fidatevi: è andata così per tutta la prima frazione di gioco.
Lobotka è stato effettivamente contenuto: soltanto 29 palloni giocati nei primi 45 minuti di gioco. Non potendo passare dal centro, come detto, il Napoli si è rivolto sugli esterni. Soprattutto a sinistra, laddove la catena Mário Rui-Zielinski-Kvaratshkelia ha messo insieme un possesso palla totale del 16,3%. La quota è così alta anche perché, esaurita la spinta iniziale, il Milan ha iniziato a essere meno dominante, a farsi irretire dalla circolazione di palla degli uomini di Spalletti – che a fine primo tempo avevano una percentuale di possesso grezzo del 54%. Come già anticipato in precedenza, è come se gli azzurri avessero deciso di gestire il pallone per gestire la partita. Di tenere bassi i ritmi per non essere travolti dalla forza fisica del Milan.
Questa strategia non ha sempre funzionato. Anzi, dal minuto 20 al minuto 35 i rossoneri hanno tirato per 6 volte verso la porta di Meret, contro gli zero tentativi del Napoli. Allo stesso modo, però, va anche detto che il portiere azzurro ha dovuto compiere una sola parata. Tra l’altro su tiro arrivato sugli sviluppi di un calcio d’angolo, non al termine di un’azione manovrata. Il Napoli ha iniziato a farsi vivo in avanti solo scaduta la mezz’ora, dopo che la spinta del Milan ha perso inevitabilmente propulsione. Fino all’intervallo, non a caso, Meret non ha più dovuto fare una sola parata.
Provare a vincere
Come detto – tra le righe – in precedenza, il Napoli ha subito il Milan e ha beneficiato dell’assenza di Leão. Del fatto che l’assenza del portoghese abbia privato Pioli di una fonte inesauribile di situazioni pericolose in una certa zona di campo. E infatti nel primo tempo il suo “socio” Theo Hernández è stato contenuto in maniera egregia: il terzino francese, come si vede chiaramente dal campetto appena sotto, è rimasto confinato sulla fascia – non è quasi mai venuto a giocare il pallone in posizione di mezzala in fase di costruzione – e ha messo insieme solamente un passaggio chiave e un dribbling riuscito (su 3 tentati).
Tutti i palloni giocati da Theo Hernández nel primo tempo
Forse è per via di tutto questo che il Napoli è entrato nella ripresa con un altro piglio, con un altro spirito. E anche con un altro approccio tattico. Pur senza alzare troppo l’intensità del pressing e senza cambiare le attribuzioni dei giocatori in campo – l’occasione potenziale di Raspadori al 46esimo non nasce da un suo attacco alla profondità, ma da un pallone giocato tra i piedi come quelli che gli sono stati recapitati nel primo tempo – la squadra di Spalletti ha iniziato a giocare in maniera più ambiziosa. E infatti da un recupero della palla in zona alta di campo è nata l’azione che ha portato al rigore conquistato da Kvara – con l’ennesima giocata cinematografica nel suo folgorante avvio di stagione – e trasformato da Politano:
Il fatto che il Napoli occupi la metà campo del Milan con sei uomini costringe Maignan al rilancio lungo; Rrahmani interviene di testa, in anticipo su Giroud, e da lì parte l’azione che porta al rigore.
Da qui in poi è come se fosse iniziata un’altra partita nella partita. La terza della serata. Perché il Milan ha ricominciato a spingere forte e il Napoli ha dovuto far fronte a questa pressione con dei cambiamenti. Anche forzati: Politano, efficace e diligente soprattutto in fase difensiva, è dovuto uscire per un infortunio o comunque perché affaticato; e anche Raspadori, a quel punto, con il Milan più avanzato e più aggressivo, era diventato pressoché inutile: occorreva inserire un attaccante in grado di contendere palla a Tomori e Kalulu e di sfruttare gli eventuali spazi che si sarebbero creati alle loro spalle. Per questo sono entrati Zerbin e Simeone.
In realtà, più che l’ingresso – un po’ molle – di Zerbin, a determinare il pareggio del Milan sono state le mosse di Pioli. Il cambio dei due esterni offensivi – Brahím Diaz e Messias per Saelemaekers e Krunic – ha infatti portato i rossoneri ad avere molti più scarichi tra le linee, e così si sono aperte delle vere e proprie praterie sulle fasce. Soprattutto dal lato di Theo Hernández, che ha sfruttato perfettamente questo nuovo contesto – e anche la copertura non proprio coriacea di Zerbin – per servire a Giroud il pallone del pareggio.
Un bel gol
È qui che il Napoli ha (di)mostrato di avere un’anima di acciaio. Che non vuol dire solo sapersi difendere, ma anche avere la forza di riorganizzarsi in chiave offensiva per provare a vincere la partita. E riorganizzarsi, in questo caso, significa anche capire come, quando e dove sfruttare a proprio vantaggio il nuovo assetto del Milan, quegli stessi cambiamenti che Pioli aveva apportato per provare a pareggiare. In questo senso, il gol di Simeone è un piccolo capolavoro tattico:
Lectio magistralis su come si attacca in spazi larghi
Partendo da un calcio di punizione, la squadra di Spalletti muove il pallone e non viene contrastata in alto dai giocatori del Milan, un po’ passivi anche sull’impostazione di Rrahmani. È il primo bug del sistema rossonero, che nel successivo giropalla – l’apertura verso Di Lorenzo – paga anche la scarsa propensione al pressing di Brahím: Di Lorenzo, infatti, ha tutto il tempo di alzare la testa, vedere – anzi: sentire – il taglio profondissimo di Simeone e dargli la palla nello spazio; a quel punto la difesa del Milan collassa sull’attaccante argentino, bravissimo a coprire la sfera, a smistarla verso Mário Rui e a scattare in area; a quel punto ci sono tre giocatori del Napoli contro due del Milan negli ultimi sedici metri, servirebbe un cross preciso e quel cross arriva. Sulla testa giusta: quella di Simeone, il cambio indovinato di Spalletti.
Lobotka, Kalulu, Kim Min-jae
A questo punto, la partita tattica è praticamente finita. Le occasioni costruite dal Milan – la traversa di Kalulu e il colpo di testa di Brahím deviato da un maestoso Kim Min-jae – sono frutto di pura rabbia agonistica e pressione feroce; anzi, l’azione che porta Kalulu a sfiorare il pareggio nasce da un errore in appoggio di Mário Rui, probabilmente il migliore in campo della squadra di Spalletti. In realtà i numeri dicono che il Napoli nel finale ha sofferto solo in quelle situazioni, per il resto ha controllato il Milan in maniera agevole. Grazie soprattutto a uno strepitoso Lobotka, che dal gol di Simeone fino al fischio finale ha tenuto una percentuale di precisione nei passaggi del 100%. Su 12 palloni giocati, record della squadra di Spalletti in quel segmento di partita.
In quegli stessi minuti, Kim Min-jae ha messo il contrappunto definitivo a una prestazione davvero straordinaria. Con il salvataggio di cui abbiamo già detto, ma anche con gli ultimi eventi difensivi della serata. Le sue cifre, in questo senso, sono mostruose: 3 contrasti vinti, 4 tiri respinti e addirittura 11 palloni spazzati via nel corso di azioni offensive del Milan. Più un fallo commesso, che fa parte del pacchetto. Basta fare una semplice divisione per rendersi conto che il sudcoreano ha effettuato un intervento difensivo ogni cinque minuti di gioco. È come se il Milan, giocando contro di lui, fosse sbattuto su un muro di gomma ogni 300 secondi, un muro di gomma in grado di respingere e risputare fuori ogni pallone, ogni avversario. Ogni pericolo.
Conclusioni
Non è un caso che questa analisi si chiuda parlando della solidità di Kim Min-jae. Il gioco efficace e sicuro, la padronanza e la forza del centrale sudcoreano sono una parte fondamentale di una vittoria che ha un peso specifico enorme. Il Napoli, infatti, non ha vinto solo il secondo big match in trasferta del suo campionato dopo quello contro la Lazio: ha anche mostrato di poter giocare alla pari con chiunque anche senza Osimhen. E senza essere brillante – o meglio: costantemente brillante – nella sua proposta offensiva.
Un buon Milan – anzi: un ottimo Milan – non si è fatto mai dominare eppure è stato domato per ampi tratti della gara. E laddove non sono arrivate la qualità, la maturità e la sagacia tattica del Napoli ci sono stati gli interventi salvifici di Kim Min-jae e Alex Meret. Anche questa è qualità, non meno importante di quella di Kvaratskhelia o Simeone. Di quella che determina il ritmo e la natura stessa della fase offensiva proposta dagli azzurri.
Milan-Napoli ci ha detto che quella di Spalletti è una squadra che sa essere solida e sa anche soffrire, quando ha bisogno di farlo. Quando deve farlo. Per esempio quando non può o non riesce a imporre il proprio gioco, e allora deve mettersi ad aspettare. A gestire la gara in maniera differente. È un segnale di maturità tecnica, emotiva ma anche – se non soprattutto – tattica. Ed è proprio questa la più grande notizia/rivoluzione che Spalletti eredita dalla notte di San Siro, oltre ovviamente ai tre punti e al primato in classifica. Tutte cose che, per fortuna, possono prescindere dal conforto della statistica.