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L’ambasciatore dei Mondiali in Qatar: «L’omosessualità è una malattia mentale»

L’ex calciatore Khalid Salman alla Zdf: “Accetteremo tutti coloro che verranno nel nostro Paese. Ma loro dovranno accettare le nostre regole”

L’ambasciatore dei Mondiali in Qatar: «L’omosessualità è una malattia mentale»

Dice uno degli ambasciatori dei Mondiali in Qatar prossimi venturi che “l’omosessualità è una malattia mentale”. Non per niente l’omosessualità in Qatar è severamente vietata e può essere punita con sette anni di reclusione.

Ma Khalid Salman, ex calciatore ormai 60enne, ha ribadito che i gay, per quanto benaccetti ora che si giocherà la Coppa del Mondo, dovranno comprendere che da loro è così che va. L’ha fatto nel corso di un’intervista rilasciata alla emittente televisiva tedesca Zdf, che andrà in onda stasera. Il documentario peraltro si chiama “Qatar segreto”. Ma l’omofobia proprio segreta non è.

“Durante i mondiali di calcio arriveranno molte cose nel nostro Paese – ha detto Salman – Parliamo dei gay. La cosa più importante è la seguente: accetteremo tutti coloro che verranno nel nostro Paese. Ma loro dovranno accettare le nostre regole”.

Qualche settimana fa il settimanale tedesco Die Zeit aveva intervistato la prima e unica persona queer del Qatar che ha fatto outing. L’ha fatto solo dopo aver ottenuto asilo politico negli Usa, e l’ha fatto alla BBC, nel maggio scorso. Si chiama Nas Mohamed, ha 35 anni, ed era un medico. Si identifica come una persona non binaria. Nel 2011 si è trasferito negli Stati Uniti, ha chiesto asilo nel 2015 e l’ha ottenuto nel 2017. E ha raccontato come (non) vivono i gay in Qatar:

La gente non si rende conto di quanto sia violento e anti-queer il Qatar. Lo stato del Qatar mette le persone in prigione e le tortura fisicamente e psicologicamente. Non vieni punito solo se vieni sorpreso per sbaglio. Fanno di tutto per trovarti. E poi ti fottono. Ti trattano come assassini. Questa è una bomba a orologeria. Perché le autorità stanno persino cercando di reclutare persone dalla nostra comunità. Se trovano una persona, la maltrattano e dicono: se non vuoi che ti succeda di nuovo, è più sicuro che lavori per noi. Questo crea sfiducia perché non sai chi lavora per lo Stato”.

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