Da Pioli a Maldini, ma anche a Napoli non scherziamo: a ogni episodio negativo torna l’intervista di Maradona che allude al sistema
Ora che è stato istituito finanche un ministero a sua salvaguardia è, se possibile, ancor più astruso discutere l’idea che l’Italia ha sviluppato, nei decenni, del famigerato “merito”: una sorta di feticcio, cui ogni serio uomo o donna moderni giurano fedeltà con speranza e impegno e che nel Belpaese ha assunto da tempo connotati lirici, quasi religiosi. Il calcio, come sempre, non ha fatto eccezione.
Il merito – va forse ricordato – non è un valore umano assoluto. Non è la fratellanza, non è l’amicizia. Nel suo nome non si ricordano rivoluzioni o discorsi della montagna. Esso è piuttosto un banale metodo di ottimizzazione delle risorse: in un determinato contesto sociale e in specifici campi, è interesse di una comunità assegnare ruoli che abbiano un largo impatto a chi è più capace e preparato perché, così facendo, si riescono a ottenere più risultati in minor tempo, facendo economia e massimizzando il numero di persone che possano beneficiare di ciò che si crea, produce, scopre, amministra. Quest’è quanto.
In Italia, per vari motivi, il merito assume invece significati metafisici. Anzitutto, lo si definisce descrivendone la mancanza – come si fa parlando della grazia divina – e lo si fa soprattutto dotandolo di un vago connotato recriminatorio: non è avvenuta la tale cosa perché non c’è merito; non ho ottenuto il tale posto perché non esiste merito; sono meno di quello che dovrei essere perché è assente il merito. (Similmente si adopera il termine “meritocrazia”, un guazzabuglio logico sintattico di gran successo che dovrebbe implicare anche l’esistenza di una eventuale de-meritocrazia che invece sembra mancare, in modo analogo in cui esistono i famosi “poteri forti” che tramano nell’ombra ma nessuno si chiede cosa facciano nel frattempo i poteri deboli, che pure dovrebbero esistere).
Il merito, dicevamo, ha cessato di essere una mera funzione di ottimizzazione ed è assurto a materia da ministeri – è divenuto etica, ragione mistica di vita, dottrina sacerdotale. Come altrove, anche nel calcio, dicevamo, il merito ha caratterizzato persone e situazioni, costruendo un metalivello, parallelo ed alternativo al gioco, che stranisce e lascia sbalorditi. Al consueto “Abbiamo vinto?” si è da tempo sostituito un più moderno “Abbiamo meritato?”, perché il merito è considerato un asset di più lunga scadenza e maggior valore. Vincere una partita gettando banalmente le palle in rete con più frequenza degli avversari è un esercizio per i più miopi, quelli che vogliono l’uovo oggi. Chi, saggiamente, propende per la gallina domani, cerca il merito.
Con un minimo di occhio analitico, non è difficile notare che, in quanto arma del rimpianto, ad affidarsi saldamente al merito è tipicamente il perdente, di fatto o in pectore. La Napoli del calcio, ad esempio, che è la capitale del merito non riconosciuto, non resiste al suo fascino e, quando il gioco si fa lievemente più duro, va a riguardare puntualmente quella intervista a Maradona a valle di Fiorentina Napoli in cui il numero dieci pronuncia il famoso: “Giochiamo contro tutti”. Quello è il segnale inequivocabile che la solfa del merito misconosciuto ha ormai fatto presa – Maradona poi stravinse, come noto, il campionato, perché difficilmente un vincente disquisisce del merito, se non per far venire il brividino alla schiena al giornalista che, prontamente, abbocca e fa abboccare i tifosi.
Il merito, dunque, si ammanta di progressismo ma è un’arma di retrovia, di difesa frustrata.
Per ironia della sorte, ultimamente è proprio il Napoli ad aver sperimentato sulla propria pelle la forza cupa del merito nostrano, allorquando una lunga sfilza di allenatori e giocatori che hanno lasciato le penne contro gli azzurri secondo l’unica metrica reale – cioè il numero di gol fatti in una partita di novanta minuti – hanno poi confermato di aver trionfato nel match virtuale del merito. Dopo Gasperini e Pioli (operosi uomini del nord), persino il mitico Paolo Maldini ha ribadito che il Milan non ha meritato di perdere nella partita casalinga contro il Napoli, in un afflato meritocratico che siamo certi persino il nuovo ministro preposto non potrà ignorare. Otto punti di distacco potrà dichiararli la matematica, ma quanti di questi sono davvero legittimi secondo il filtro mistico del merito?
Il corto circuito logico più sottile sta qui nel dettaglio, come spesso accade nei salotti italiani. Nel chiacchiericcio, infatti, si utilizza l’aggettivo “meritato” quando si ha troppo pudore per osare la sfrontatezza di pronunciare l’aggettivo “giusto”. Il risultato immeritato è, per chi parla, sostanzialmente ingiusto – ed è qui che il discorso diventa sommessamente osceno. Se hai perso per motivi ingiusti hai accumulato – sempre secondo chi parla – un credito con la fortuna, cioè una entità soprannaturale che tutto equilibra nel lungo periodo, secondo un senso superstizioso di giustizia a cui la natura dovrebbe uniformarsi. Ovviamente, tutto ciò è una costruzione arbitraria (da non confondere con arbitrale): la natura è infatti del tutto indifferente alle vicende umane, men che meno calcistiche e la fortuna così descritta non esiste. Si entra perciò in un mondo più rarefatto, in cui si dice a metà, si ammicca, si fa insomma l’italiano a pieno titolo, chiamando le sconfitte col nome esotico di vittorie avversarie immeritate e lasciando che ciascuno poi tragga, in camera caritatis, le necessarie conseguenze.
In questo senso, il ministero per il merito è il più sacro dei ministeri, fa da ponte tra gli uomini e l’aldilà, promette eque redistribuzioni, incoraggia sapienti ripartizioni. Esso custodisce quello che per gli italiani è più potente di Sant’Antonio e più importante della mamma: l’operoso e doveroso preservare.