A Sportweek: «Scoglio se la prendeva con quelli in panchina: diceva che se erano tristi portava male. Oggi il calcio è cambiato in peggio».
Su Sportweek, settimanale della Gazzetta dello Sport, un’intervista a Totò Schillaci. Insieme alla moglie Barbara parteciperà a Pechino Express, show che andrà in onda su Sky dal prossimo 9 marzo.
«È stata una rivincita. A gennaio di un anno fa mi trovano un tumore al colon retto. A febbraio mi operano una prima volta, due mesi dopo la seconda. Quando arriva la proposta di Pechino Express, mi prendono i dubbi perché sapevo che sarebbe stata tosta. I medici mi dicono “Sei guarito riprenditi la tua vita”. Barbara insiste molto. Dico sì solo perché lei sarebbe stata con me. Questa avventura è stata una rivincita sulla malattia e su quello che si era portata dietro: depressione e pensieri di morte».
Schillaci dice di aver realizzato tutti i suoi sogni.
«Da piccolo sognavo di fare il calciatore e, insieme a questo, ho realizzato tutti i miei desideri: per esempio, giocare nella Juve. Mi sarei accontentato di poco, invece il calcio mi ha dato tutto: fama, vittorie, denaro».
Chi era lo Schillaci bambino?
«Giocavo sull’asfalto del quartiere CEP, uno dei più popolari e difficili di Palermo. Famiglia molto modesta, tre fratelli e una sorella, papà faceva il muratore. Era il mio primo e più grande tifoso, mi ha accompagnato dappertutto pur di farmi giocare. Io ho cercato di aiutare: ho fatto il gommista, il garzone di pasticceria, l’ambulante… Ho smesso quando mi prese il Messina».
Racconta di quando al Messina arrivò, come allenatore, Scoglio.
«Per me è stato un secondo padre. Ero esentato dalla riunione tattica prepartita: “La presenza di Totò è inutile”, diceva. “Lui in campo deve essere libero, muoversi come sente. Basta che faccia gol”. Scoglio divideva il gruppo in due: i veterani gli “tenevano” lo spogliatoio, erano i suoi luogotenenti. Poi c’erano gli altri. In partita se la prendeva con quelli in panchina: “Voi non dovete avere la faccia triste perché non giocate, dovete sorridere, altrimenti portate male!”».
Dopo Scoglio, Zeman. Schillaci racconta:
«Uno senza peli sulla lingua. Gli interessava come ti comportavi in campo, fuori potevi fare quello che volevi. Bravissimo nel preparare atleticamente la squadra: con lui, nel mio ultimo anno a Messina, segnai 23 gol. Organizzava alla perfezione la fase offensiva, dietro rischiavamo parecchio: difesa alta e fuorigioco. Ma la gente si divertiva».
Hai rapporti con la Juve? Schillaci:
«Con quella di questi ultimi anni, no. Il legame c’è a distanza. Vado nei club dei tifosi e mi dispiace che quella che era una tradizione si sia persa: oggi i calciatori non incontrano più le persone, anche gli ex più recenti respingono gli inviti nei circoli. Ad andarci siamo solo noi vecchie glorie. Il calcio è cambiato in peggio: si gioca troppo, non esiste più l’attaccamento alla maglia, è tutto basato sui soldi. I giocatori fanno meno sacrifici, a 14 anni si perdono perché non hanno voglia di rinunciare a certe distrazioni. Si arriva in alto troppo in fretta, ma il livello tecnico, anche nei settori giovanili, è sceso tantissimo. C’è pochissimo talento. E troppo presto si arriva in Nazionale. Una volta la maglia azzurra era il premio a una carriera; oggi, con così pochi italiani in Serie A, Mancini è costretto a pescare dappertutto, anche all’estero e in B. E in questa maniera dove vuoi andare?».
Segui la Serie A? Schillaci:
«Molte partite mi annoiano, mi addormento davanti alla tv. Troppa tattica, si gioca più all’indietro che in avanti. Toccano la palla più i portieri degli attaccanti. Mi piace invece il calcio inglese: aperto, veloce, coraggioso. Anche sotto 3-0, nessuno si arrende».
Li sogni ancora, i rigori nella semifinale di Italia 90 contro l’Argentina?
«Sempre. Se tornassi indietro forse batterei quel rigore che non tirai perché avevo male. È il destino che ha voluto così: vincevamo 1-0, avevamo la partita in pugno, poi un errore di Zenga ci è costato il pareggio. Sui rigori non ero ottimista, perché dal dischetto l’Argentina era più forte di noi».