Al di là di dibattiti surreali, a Napoli il tifo è completamente privo di qualunque idea precostituita. Gli schemi sono saltati sugli spalti come in campo
A sessantotto punti è giunta l’ora di affrontare la realtà e discutere la concreta possibilità che Napoli si candidi ad essere la prima città a vincere un campionato di calcio essendo, al contempo, capitale del tifo disorganizzato.
Il tifo disorganizzato è una interessantissima incarnazione postmoderna e post pandemica dell’anarchismo di cui questo sport a volte è portatore. Esso si configura quando il singolo rivendica completo diritto ad un rapporto privato con l’evento sportivo, eventualmente a discapito dei valori comunitari. Gli spettatori del Maradona si ritrovano sugli spalti quasi come per un effetto collaterale, trasportati dalla contingenza della partita e da un rapporto intimo e riservato con quanto essa possa significare. Senza bandiere raccordate, senza orchestrazione di colori, senza canovacci precostituiti, le decine di migliaia comprano, si seggono, seguono per quel che vogliono e poi vanno via, tutto di prima intenzione. La novità storica è che questa idea di loyalty sportiva non solo porta la squadra a vincere ma la conduce addirittura ad annientare il campionato. Dunque è efficace.
Nel dibattito, invero alquanto scoraggiante, tra chi invoca vergogna per chi paga e fa lo sciopero del tifo e chi si incappuccia e tira uno striscione minaccioso di risposta, uno è il comune denominatore tra le parti: il senso del dovere che tutti vogliono imporre ai tifosi. È ormai un coro di stampa, intellettuali, ultras uniti. Tutti sono d’accordo debba esistere una Magna Carta dei doveri dello spettatore: deve cantare; deve urlare; deve sorreggere; deve sventolare; soprattutto deve soffrire. Non è un biglietto per novanta minuti di divertimento, è più un misto tra una visita in miniera e un campo di rieducazione forzata cui fanno da corollario gli altri noti assiomi: i napoletani devono essere allegri. Devono saper cantare. Devono fare due mesi di feste dopo il titolo. Devono comprare un biglietto tra mille peripezie, non certo attraverso una normale transazione di una carta di debito. Devono andare in trasferta con viaggi epopeici. La realtà è altrove: a Napoli il tifo è completamente privo di qualunque idea precostituita. Il dodicesimo uomo in campo è dissolto nel tempo, non ha più identità perché non ha necessità di esistere, non si muove più all’unisono ma è una splendida moltitudine di monadi perse nei propri pensieri e negli eventuali dribbling di Kvaratskhelia. Una moltitudine percepita dai calciatori, i quali la vivono e la percepiscono durante il gioco in un legame nuovo ed entusiasmante.
Il tifo, per come lo abbiamo conosciuto, non tornerà più a Napoli, ed è una notizia che proietta la città in una nuova contemporaneità, in cui i singoli possono decidere di guardare una gara di serie A senza l’onere di omologarsi all’idea dello sport cui il mondo costringe le persone. In campo gli schemi sono saltati. Sono saltati, finalmente, anche sugli spalti.