Tra il Var e la giustizia sportiva, le emozioni non sono più liberatorie. Il gol, ma anche il risultato, può essere sempre messo in discussione
Uno dei momenti chiave dello sport, sia dal punto di vista di chi lo agisce – atleti, dirigenti, allenatori – sia dal punto di vista di chi lo fruisce – il tifoso e l’appassionato – è l’esultanza. Nel calcio è il momento che segue il gol della propria squadra, la vittoria in un match, l’affermazione in una competizione. Qui il tifoso libera l’energia, l’adrenalina, il coacervo di emozioni accumulate non solo nei minuti di partita precedenti o nel tragitto per recarsi allo stadio, ma nella preparazione per l’evento, che, in alcuni casi, dura giorni.
La liberazione di questa energia è fondamentale: le urla, gli abbracci, i salti scomposti, i canti e le danze improvvisate o preparate che il tifoso agisce hanno quella funzione catartica che Aristotele attribuiva alla tragedia: liberare l’anima – ma anche il corpo – da ogni contaminazione, rabbia ed energia negativa e, in una prospettiva nietzscheana, esaltare la gioia, l’orgoglio per la vittoria. Affinché ciò avvenga bisogna però che la vittoria, il gol, l’affermazione siano certe, inequivocabili, inattaccabili. Il gesto dell’arbitro che, fischiando, indica il cerchio di centrocampo segna questa certezza in modo irreversibile: è gol. Lo stesso vale per l’affermazione in una competizione: i tre fischi dell’arbitro al termine della partita che regala ad una squadra la certezza matematica del titolo segna una cesura non reversibile: è il momento della festa.
Affinché ci sia questa liberazione, affinché questa esaltazione della gioia avvenga compiutamente, è quindi fondamentale che la proclamazione del gol o della vittoria avvengano inequivocabilmente sul terreno di gioco. Il tifoso deve essere certo che, pochi attimi dopo che il pallone entra in rete, l’arbitro convalidi o meno il gol; la festa per uno scudetto incomincia sul campo, al triplice fischio. In altri termini, il tempo dello sport non è – né deve essere – un tempo reversibile.
Ebbene, questa essenzialità, questa irreversibilità, questa chiarezza dell’esultanza, questo momento ad un tempo di liberazione e di esaltazione, nel senso migliore del termine, è precisamente ciò che nel calcio abbiamo perso. Il gol è affidato, spesso, alle analisi del Var, e l’affermazione in una competizione – così come una qualificazione o la salvezza della propria squadra – seguono talvolta i tempi e i modi della giustizia sportiva.
Da un punto di vista emotivo si tratta di un cambiamento decisivo e, almeno a parere di chi scrive, per nulla benigno. Sia chiaro che non critico né l’introduzione del Var né la necessità dei procedimenti giudiziari – ci mancherebbe. Provo solo a riflettere sui loro effetti, sospendendo il giudizio sulla loro necessità. E qui, concretamente, le emozioni – perché sono le emozioni la concretezza dello sport – perdono la loro nettezza, la loro chiarezza e distinzione.
Il pallone che entra in rete è, oggi, un misto di gioia e liberazione, da un lato, e ansia, preoccupazione che il gol possa essere annullato, dall’altro. La procedura, come è noto, può durare alcuni minuti. Estremizzando il ragionamento, il tifoso non è mai compiutamente felice, liberato. La tensione non si scarica mai. Emotivamente si vive perennemente nella possibilità che il risultato tanto atteso possa essere inficiato, ribaltato, messo in discussione, fra un minuto, un giorno, un anno, anche.
La giustizia sportiva, inevitabilmente, amplifica virtualmente all’infinito questa sospensione emotiva: scudetti assegnati a distanza di anni e classifiche riscritte fanno dell’incertezza e dell’ambiguità emotiva il “pensiero dominante” di questo tempo calcistico. Detto in altri termini non c’è gioia che non sia tinta d’ansia, non c’è affermazione che non sia esposta alla precarietà, all’inquietudine. Nessuna liberazione, quindi, ma un meccanismo che amplifica nevrosi, incertezze, frustrazioni e loop emotivi. Gli stessi che magari si vorrebbe sospendere andando allo stadio e che invece, in maniera ironica e forse un po’ tragica, ne escono talvolta rafforzati.
Mi sembra importante sottolineare come non sia tanto l’effettiva incidenza di questi eventi a segnare l’inizio di una nuova emotività legata al calcio, quanto la loro possibilità e, come scriveva Kierkegaard, il tremendo potere che la possibilità ha nel generare travaglio, ansia, angoscia, anche. È cioè sempre possibile che un gol venga annullato o uno scudetto revocato; è sempre comunque possibile che la vittoria non sia vittoria e la sconfitta non sia sconfitta.
E infatti anche l’altra faccia dello sport, la sconfitta, non ne esce meglio. Se assumiamo che la frustrazione e il dolore – perché tale è per il tifoso – per la sconfitta necessitino di una “elaborazione del lutto”, è semplice vedere come tale elaborazione può non avvenire mai. Perché se la vittoria non è mai definita e definitiva, non lo è neanche la sconfitta. Un gol può essere annullato per un fallo compiuto un paio di minuti prima, uno scudetto può essere vinto, magari un anno dopo. “Aspetta… magari c’era un fallo… vediamo…” è la frase tipica che ci troviamo a pronunciare quando segna la squadra avversaria, in uno stato emotivo di attesa mai soddisfatta. Fa venire in mente il meraviglioso romanzo di Buzzati, Il deserto dei Tartari, dove l’attesa che estenua e consuma non rimanda più a nulla, è in qualche modo oggetto di sé stessa, in un loop che, appunto, segna il deserto dell’emozione.
Ed è proprio questa ambiguità ormai strutturale del risultato, questa possibilità costante che l’esito sportivo possa essere discusso e ribaltato che, paradossalmente più dell’ingiustizia stessa, inquina ed erode le fondamenta del calcio, cioè le emozioni. Una sconfitta netta, dalla quale risalire e ricostruirsi è talvolta meno devastante di una perenne incertezza.