Il suo Napoli ha vinto col calcio liquido, anzi di più. Ha saputo sfruttare Osimhen, ha difeso in modo non ideologico e Kvara e Lobotka sono stati due fari
Spalletti il genio
Un modello di business ormai rodato, i bilanci sani, le intuizioni di mercato, le poche e oculate cessioni, la rivoluzione – tecnica, culturale – dell’estate 2022. Lo scudetto del Napoli nasce e quindi deve essere raccontato partendo dai – tanti, interessanti – presupposti politici legati alle figure e soprattutto alle scelte di De Laurentiis e Giuntoli. Alla fine o all’inizio di tutto, però, c’è il campo. Ci sono le decisioni legate alla tattica, agli uomini, al gioco, ai movimenti, alle interazioni. E allora è giusto, ora che la festa è entrata in fase di diluizione, celebrare i meriti e comprendere le scelte fatte da Luciano Spalletti.
Ma andiamo con ordine, partendo dall’inizio. Dalla situazione che c’era all’arrivo di Spalletti, ormai due anni fa. Sul Napolista scrivevamo che: «Spalletti dovrà far fruttare il suo giocatore più forte e influente della rosa del Napoli, Victor Osimhen. Quasi scontato pensare che il nuovo tecnico azzurro possa adattare le sue visioni alla presenza dell’attaccante nigeriano». Ecco, è andata esattamente così. La mutazione progressiva del Napoli è avvenuta in due atti: la prima stagione è stata troppo influenzata – anche politicamente – dalla presenza di diversi giocatori troppo innamorati di un certo calcio di possesso per poter sfruttare davvero Osimhen, e stiamo parlando di Ospina, Koulibaly, Mertens, Insigne.
Poi c’è stata l’esplosione di quest’anno. Che ha dimostrato, una volta di più, la genialità di Spalletti. Nonostante non sia proprio giovanissimo, non a caso è diventato il tecnico più anziano di sempre a vincere uno scudetto, Spalletti non ha mai smesso di studiare. Di aggiornarsi, quindi di aggiornare il suo calcio. Il Napoli di quest’anno, infatti, è stato ed è una squadra che gioca in modo modernissimo, anche post-contemporaneo. In alcune gare, le più belle, sembrava provenire dal futuro. Capiamo perché.
Osimhen
Intanto, come anticipato nel paragrafo precedente, uno dei primi temi riguarda(va) la necessità di sfruttare Osimhen. Ovvero, un calciatore che in Serie A è nettamente sovradimensionato dal punto di vista fisico ma anche tecnico, quindi garantisce un impatto enorme sulle partite. Per utilizzare al meglio questa sua arma impropria, Spalletti ha creato un sistema misto, una sorta di cocktail tattico. Il Napoli 2022/23, infatti, è una squadra che sa praticare allo stesso modo il calcio di possesso e anche un calcio più diretto, iper-verticale. Perché, appunto, Victor Osimhen ha la tendenza a galleggiare sulla linea difensiva, ad allungare e allargare costantemente il campo d’attacco. A differenza di quello che succedeva con Mertens ma anche con Milik, che invece sono attaccanti decisamente più bravi ad accorciare il campo e la propria squadra, a legarsi con il centrocampo.
Lo spazio lasciato vuoto mentre Osimhen aggredisce lo spazio dietro ai centrali avversari
Chi ha seguito con attenzione le partite del Napoli sa benissimo che la squadra di Spalletti utilizza il lancio lungo in modo continuo. Quasi ossessivo. Subito dopo la costruzione dal basso per attirare il pressing avversario, di cui parleremo più avanti, il servizio profondo per Osimhen è una giocata molto ricorrente. Lo dicono i numeri: il Napoli è la prima squadra della Serie A 2022/23 per numero di passaggi brevi tentati (292), ma è primo anche nella classifica dei passaggi medi tentati, ovvero quelli tra i 13 e i 25 metri (243 per match), e inoltre cerca il lancio lungo più di 25 metri per 73 volte a partita.
Questo tipo di soluzione, come anticipato in precedenza, serve proprio per armare al meglio il carrarmato-Osimhen. Un attaccante che si esalta negli spazi larghi, che ama fare a sportellate – anche perché in pochi riescono a tenergli testa nello scontro fisico – coi centrali avversari, che è fortissimo nelle sponde ma anche velocissimo a campo aperto, allora può far scorrere la palla e inseguirla, tanto arriverà sempre prima degli altri.
La fionda Politano
Per massimizzare e ottimizzare la ricerca della profondità, una delle mosse più utilizzate da Spalletti è un utilizzo peculiare di Matteo Politano, uno dei due titolari a destra del tridente offensivo. Giocando a piede invertito, Politano può essere – e viene – servito dopo la costruzione bassa e così ha un angolo più ampio per lanciare Osimhen nello spazio. Stessa cosa succede a sinistra, con Kvaratskhelia: anche lui viene spesso dentro il campo e poi cerca la sventagliata lunga per Osimhen utilizzando il suo piede forte, il destro.
Più che i numeri, che comunque ci sarebbero, a conferma di questa lettura usiamo il video di uno dei gol più significativi segnati dal Napoli in questa stagione: quello del 2-0 contro la Juventus, in occasione del match finito 5-1 allo stadio Maradona. L’ultima parte dell’azione offensiva degli azzurri comincia proprio con un lancio a fionda di Politano per Osimhen. La stessa identica cosa, per chi volesse verificare, era successa anche durante Roma-Napoli 0-1.
A fionda vuol dire di prima, o comunque servito molto velocemente
In questo caso c’è un rimpallo che favorisce Osimhen, ma la sostanza e l’idea sono chiare, ben visibili: un attaccante come Osimhen crea sempre tensione nella difesa che si ritrova ad affrontare, la porta a giocare in un uno stato di perenne stress tattico e quindi anche fisico. Una delle conseguenze inevitabili di questa condizione di paura è che gli allenatori delle squadre avversarie duplicano la marcatura sul centravanti nigeriano.
E così finiscono per lasciare un po’ più libero Khvicha Kvaratskhelia, un altro calciatore che si esalta in campo lungo – ma che è devastante anche negli spazi stretti: ne parleremo. Nel ritorno dei quarti di finale di Champions League, Pioli è riuscito a uscire indenne dal San Paolo proprio perché è riuscito a trovare una contromisura tattica, il raddoppio costante sull’esterno georgiano. E anche perché Osimhen era evidentemente a corto di condizione causa infortunio muscolare.
Un nuovo calcio di possesso
La necessità e quindi la volontà di armare Osimhen – e Kvaratskhelia, ma anche Lozano – su un campo lungo, in spazi aperti, non ha però modificato l’anima del Napoli. Spalletti, molto più semplicemente, ha creato un sistema in cui la costruzione bassa ragionata resta il riferimento principale, solo che si tratta di uno strumento diverso rispetto al passato.
Il Napoli 2022/23, insomma, è una squadra che comincia sempre l’azione con il portiere e soprattutto con i difensori, non a caso Di Lorenzo, Kim Min-jae e Rrahmani sono i giocatori che hanno tentato più passaggi in assoluto in gare di Serie A, ma ora quei passaggi iniziali servono per chiamare gli avversari al pressing, per liberare spazi da aggredire velocemente. Con palloni verticali, come spiegato sopra. Ma anche passando per un trio di centrocampisti che, in qualche modo, ha rappresentato una delle chiavi tattiche più interessanti non solo in Italia, ma nell’intero panorama europeo.
Due immagini tratte dalla stessa partita, Napoli-Sassuolo. Anche se sono due frame estratti a distanza di pochi minuti di gioco, il Napoli è disposto in maniera completamente diversa. Soprattutto i tre centrocampisti.
Dario Pergolizzi, analista tattico di Ultimo Uomo, ha scritto che «Anguissa, Zielinski e Lobotka si muovono tantissimo, scambiando tra loro sul corto per legare il gioco da un lato all’altro o per ricercare la verticalizzazione alle spalle della pressione. Per funzionare, questo gioco ha bisogno della precisione degli interpreti nelle letture dei movimenti, capire quando proporsi e dove. […] Certo, è più facile vedere Lobotka come riferimento centrale davanti alla difesa in uscita piuttosto che Zielinski, che invece cerca più frequentemente di occupare lo spazio alle spalle della punta, ma nei lunghi flussi di possesso in cui la palla tornava a viaggiare all’indietro prima di essere nuovamente spostata in avanti, i movimenti alternati dei tre, in simbiosi con quelli dei terzini e dei tre attaccanti davanti, sono decisivi per superare la pressione dell’avversario».
La realtà, quindi, è che i principi di gioco del Napoli, esattamente come il 4-3-3/4-5-1 utilizzato da Spalletti per tutta la stagione, sono estremamente fluidi. Si può tranquillamente parlare di calcio liquido. Anzi, in realtà si può andare ancora oltre: il Napoli 2022/23 è stato spesso avvicinato al Fluminense di Pedro Diniz, uno degli esperimenti tattici più innovativi del calcio mondiale, una squadra visionaria che, per dirla in parole povere, non ha posizioni fisse e si muove – anzi: si deforma – in campo in base alla posizione del pallone e degli avversari. Ecco, il Napoli è più rigido in alcuni aspetti del proprio gioco, ma questa definizione calza perfettamente al trio di centrocampo. E anche a Di Lorenzo e Mário Rui/Olivera, terzini e mezzali di supporto in fase offensiva.
La sovrapposizione interna dell’esterno basso è uno dei massimi feticismi tattici di Luciano Spalletti
Le differenze col calcio di possesso praticato dal Napoli in altre stagioni sono nette. Si possono sintetizzare così: prima la costruzione dal basso era utilizzata in modo sistematico per risalire il terreno di gioco e portare gradualmente molti uomini nella metà campo avversaria; Spalletti, invece, usa gli stessi concetti – in modo meno intensivo – per attirare la pressione e poter verticalizzare in spazi più aperti. Questo, però, non è sempre possibile. Ed è qui che Khvicha Kvaratskhelia ha fatto la rivoluzione. L’esterno georgiano, infatti, ha dato un boost di velocità al gioco del Napoli, l’ha fatto diventare più elettrico, più esplosivo. I suoi dribbling e la sua conseguente capacità di sgusciare nello stretto hanno reso più imprevedibili, spesso anche più dirette, le manovre di accerchiamento a difesa posizionata.
Sembra retorica, sembra una forzatura, ma non lo è: nel gioco double face di Kvatatskhelia c’è la doppia anima del Napoli. L’esterno georgiano ha convinto ancor di più Spalletti a trasformare la sua squadra, in pratica l’ha fatta diventare meno sincopata, forse meno armonica ma sicuramente più vicina alle caratteristiche di Osimhen. Al tempo stesso, però, Kvara ha saputo offrire soluzioni – cioè creare occasioni – anche contro difese numerose e schierate basse, nel corso di partite in cui non era possibile attaccare in verticale. Merito di una tecnica e di una fisicità dirompenti. Di una capacità quasi paranormale di tenere il pallone costantemente attaccato al piede e quindi di spostarlo in maniera impercettibile ma decisiva.
Un po’ di cose belle di Khvicha Kvaratskhelia
La difesa e Kim Min-jae
Questa rivoluzione offensiva ha avuto basi solide. Anzi, solidissime. Parliamo ovviamente della difesa, rimasta orfana di Kalidou Koulibaly e integrata con Kim Min-jae e Mati Olivera. Ecco, l’acquisto del centrale sudcoreano è stato decisivo. Se il suo impatto si potesse enumerare, sarebbe del tutto similare a quello di Kvaratskhelia. Per un motivo semplice: Kim è perfetto per la fase di non possesso messa a punto da Spalletti, vale a dire un intelligente mix – un altro – tra aggressività perenne e compattezza, senza però abbassarsi troppo verso la propria area di rigore.
Volendo espandere un po’ il concetto, si potrebbe dire che il Napoli 2022/23 è una squadra che difende in modo non ideologico. Che sa fare pressing intenso ma vive anche di momenti in cui i reparti si avvicinano molto e restano a presidio degli spazi e delle linee di passaggio. Questo non significa che il Napoli gioca con i difensori schiacciati a pochi metri da Meret, ma che sa inibire gli avversari senza aggredire in maniera ossessiva i portatori di palla.
Kim è implacabile nell’anticipo ma sa anche tenere benissimo la vecchia e cara marcatura a uomo; è velocissimo nel rompere la linea e andare a braccare il portatore di palla, ma riesce a capire quando deve rimanere all’altezza dei suoi compagni di reparto. E poi è un prodigio fisico, è un muro di muscoli fatti di marmo che però si allungano e diventano elastici, fino quasi a esplodere, quando deve scattare per chiudere la strada a un giocatore avversario.
Kim Min-jae compilation
Il Napoli aveva bisogno di un difensore del genere al posto di Koulibaly. È un discorso valido se guardiamo al valore assoluto – altissimo – di Kim Min-jae, ma è soprattutto una questione di caratteristiche tecniche. Di aderenza al progetto tattico. Koulibaly era ed è un centrale elegantissimo e maestoso che manifestava le sue qualità in un certo tipo di contesto, oltre che – ovviamente – nell’uno contro uno puro. Kim Min-jae forse è più disordinato e meno regale, ma ha permesso e permette al Napoli di adottare diversi stili nel corso della partita. Perché non si deconcentra praticamente mai, è sempre connesso – mentalmente, fisicamente – alla partita e ai compagni. Cambia atteggiamento e anche i movimenti in campo in base a ciò che serve. È un situazionista, più che un posizionista.
Ecco, forse è questa la definizione migliore. Per Kim Min-jae, ma anche per l’intero progetto ideato e costruito e rifinito da Spalletti. I meccanismi di gioco più frequenti, non ci mettiamo a spiegarli perbene perché altrimenti ci vorrebbero settimane e poi l’abbiamo fatto nel corso dell’intera stagione, discendono direttamente da questi principi. Da una rivoluzione che ha tagliato ogni ponte col passato, senza però cancellare la parte migliore di quello che c’era. E che si poteva riconvertire.
Post scriptum: Stanislav Lobotka
Il riferimento, l’ultimo di questa analisi, è a Stanislav Lobotka. Vale a dire il cervello, il cuore pulsante, il metronomo del Napoli – ma nel vero senso della parola, non in giornalistese: Lobotka è davvero un uomo che produce un impulso costante per aiutare i musicisti (i calciatori) a suonare (a giocare) con il tempo giusto.
Il recupero e la reinvenzione di Lobotka sono due capolavori assoluti di Spalletti, forse ancora più significativi di quelli fatti con Osimhen, Kvaratskhelia, Kim Min-jae: Lobotka era un giocatore completamente escluso dal progetto-Napoli ed è diventato imprescindibile, con l’alternanza tra passaggi corti e strappi palla al piede ha mostrato al Napoli e al calcio italiano un modo di fare regia che non si era mai visto. Anche per questo ha poco senso paragonarlo a Pizarro e Brozovic, altri due grandi centromediani “creati” da Spalletti.
Lobotka è anche il giocatore che orienta e gestisce il pressing del Napoli. È lui che invita i compagni a salire; è lui che detta le scalate quando la squadra di Spalletti entra nella metà campo avversaria per aggredire gli avversari, per cercare la riconquista in zona avanzata. Il suo impatto e la sua importanza nel gioco del Napoli sono enormi, incalcolabili. E infatti tutti gli allenatori avversari pensano a come fermare lui, prima ancora che Osimhen e Kvaratskhelia. Il punto è che forse quest’anno sono stati e sono troppi, quelli del Napoli da dover fermare. E Spalletti è stato bravissimo a trovare gli incastri per esaltarli tutti. È così che è arrivato lo scudetto.