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Vasco Rossi: «La mia fragilità è la timidezza. Mi sono violentato per salire sul palco, ora vorrei morirci»

A Sette: «Per me è sempre stato un gioco fare la rockstar. Non puoi pensare di farlo veramente, a meno che tu non abbia problemi mentali».

Vasco Rossi: «La mia fragilità è la timidezza. Mi sono violentato per salire sul palco, ora vorrei morirci»
Venezia 10/09/2015 - Festival del Cinema di Venezia / foto Image nella foto: Vasco Rossi

Vasco Rossi si racconta a Sette, settimanale del Corriere della Sera. Sta per partire il suo tour estivo, 10 date negli stadi già tutte sold out. Vasco andrà anche in città in cui non suona da tempo, come Bologna, Palermo, Salerno e Roma.

Vasco parla di sé e della sua musica. Racconta che sta imparando l’inglese («sono solo alla quinta lezione, voglio arrivare a capire i film in lingua originale») e dell’impatto che hanno avuto su di lui i 70 anni.

«Le cifre tonde colpiscono, ma era stato peggio con i 60. Allora sentii suonare la campana. Come la musica che mettono in chiusura di serata nei locali: puoi rimanere ancora, le luci sono accese e non ti buttano fuori, ma… Con i 70 invece sono arrivato al punto in cui mi dico “faccio quello che mi pare perché dal futuro che c’è ancora non possono arrivare grandi fregature”. Non è una cifra tonda, ma il Covid è stato un momento di crisi perché ho capito che dipendo dall’andare sul palco».

Vasco si augura di morire sul palco, non potrebbe sopportare di non poter fare più concerti.

«Spero di morire sul palco… In realtà lavoro su me stesso per cercare un senso indipendentemente dai progetti di lavoro. Devi imparare a vivere il momento, il presente».

Parla del suo amore per la lettura.

«Mi piace leggere, sono una persona curiosa. Ho fatto una scuola tecnica, ci hanno insegnato per tre anni ragioneria, una cosa che impari in una settimana con un corso, e nulla di filosofia. E quindi l’ho scoperta da me».

In un’intervista del 1983 Vasco disse: «Io non diventerò mai vecchio, morirò prima».

«Stavo andando al massimo. Era un periodo di eccessi e di molta creatività. Facevo tutto con l’obiettivo di scrivere
canzoni e arrivare al cuore della gente. Vivevo in un capannone nella zona industriale di Bologna, usavo sostanze per stare sveglio due o tre giorni a scrivere canzoni e dormire era come perdere tempo. Ero anche pronto a sacrificare la vita per quello, ma non nel senso che volessi morire o suicidarmi. Mi rendevo conto che stavo esagerando. Ho fatto tutto coscientemente. Non ci sono caduto dentro. Ho vissuto quel viaggio e sono finito contro il muro. Ma non per un incidente stradale».

Spiega di che muro parla:

«Quello del bigottismo ipocrita e della caccia alle streghe che mi ha fatto diventare il capro espiatorio di un periodo in cui si facevano praticamente tutti. Sono stato l’unico al mondo a essere denunciato dal suo fornitore (un infame). Venni arrestato e prima che il pm si degnasse di incontrarmi passai cinque giorni in isolamento. Ho usato quell’esperienza per fare reset».

Il Vasco pericolo pubblico…

«Sembravo scapigliato e fuori di testa, ma ho sempre avuto le idee chiare. Fino a 20 anni pensavo si potesse cambiare il sistema, dopo ho costruito un sistema mio. Mi sono inventato un lavoro come disc jockey con le radio private e poi è partita questa avventura delle canzoni. Ho imparato dai cantautori, ma sono stato il primo, assieme a Nannini e Bennato, a usare il linguaggio del rock in italiano».

La canzone della svolta?

«Con Ogni volta ho trovato la mia strada nella scrittura dei testi. Era la sintesi del linguaggio: ti dico una cosa, ma nel modo più sintetico possibile. Al contrario di quello che facevano i cantautori. Ho cominciato a scrivere Ogni volta pensando che l’avrei capita solo io. Saltavo tutti i passaggi in mezzo, non raccontavo niente. Quando ho visto che gli altri riempivano quei passaggi con la loro immaginazione ho capito che era una magia straordinaria».

La canzone perfetta? Vasco ne indica una:

«Vita spericolata. Sono andato a Sanremo nel 1983 finalmente felice perché cantavo una canzone che mandava tutti a quel paese, soprattutto i benpensanti. Era il mio “andate a farvi fottere, voglio una vita come pare a me”. Era una vita spericolata non nel senso di drogata, anzi la canzone è un inno alla vita. Certo, una vita vissuta rischiando e sbagliando, e di conseguenza imparando».

Si può avere una «vita spericolata» a 70 anni?

«Sono sempre lo stesso. Affronto la vita con una certa intensità, non cerco una vita sicura, piatta e tranquilla. Non sarei in grado di viverla. Mi sento sempre un ragazzo di 15 anni».

Vasco racconta cosa pensa un minuto prima di salire sul palco e un minuto dopo l’inizio.

«Per me è sempre stato un gioco fare la rockstar. Non puoi pensare di farlo veramente, a meno che tu non abbia problemi mentali. La rockstar la fai sul palco, quando scendi devi tornare la persona che sei, altrimenti sei fuori di testa. Quando dietro le quinte sento il pubblico che mi chiama penso che stiano chiamando quell’altro. Che infatti arriva sempre. E quando incontro qualcuno che mi riconosce dico “sono qui in rappresentanza del mito”. Gli sguardi mi lasciano allibito, non mi sento all’altezza di quello che vedono le persone e mi imbarazzo. Sono sensibile, sento troppo».

Vasco continua:

«La mia fragilità è la timidezza. Mi sono violentato per salire sul palco. Sono al servizio del pubblico, voglio che si divertano loro. Per anni non mi sono divertito anche se ora è l’unico posto dove riesco a essere nel momento, nel presente di cui parlavamo prima». 

Vasco parla del padre e della madre. Il padre è morto nel 1979, a 56 anni.

«Mi spiace che lui non abbia visto nulla della mia carriera, credo sarebbe stato orgoglioso. L’avrebbe vissuta come un riscatto. Doveva volermi bene perché all’inizio non stavo combinando un cazzo con un lavoro, il disc jockey, che lui manco capiva cosa fosse. Con mamma è stato diverso. I fan hanno iniziato ad andare a casa sua, lei li faceva entrare e mi diceva “tranquillo, ti vogliono bene”. E io “mamma, tu mi vuoi bene; loro me ne vogliono fino a che gli piace il disco”. Per fortuna si è presentata solo gente sana e non è successo nulla, ma ad un certo punto dovetti far montare un cancello davanti a casa sua».

Su Bollicine, che compie 40 anni.

«La Coca Cola ai miei tempi voleva denunciarmi per avergli rovinato l’immagine. Sembrava un’allusione alla droga e ci ho giocato apposta. Dicevo Coca e tutti si aspettavano …ina. Volevo fare paura agli ipocriti. E poi c’era la presa in giro della pubblicità che per me è il male assoluto della società: crea bisogni che non esistono, ci fa consumare più di quanto abbiamo bisogno, crea modelli che non esistono, frustrazioni dalla proposizione dell’immagine di uomini e donne belle… Berlusconi l’ha sdoganata e ha rimbecillito il Paese con le sue tre televisioni. Il problema è stato che poi è pure entrato in politica».

 

 

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