Il percorso della sua esistenza, tra impegno politico, amori e ovviamente la musica. Lunghissimi applausi. Omaggi al Napoli. Smartphone sigillati all’ingresso
Ci si può divertire e provare a cambiare il mondo?
Questa è la domanda alla quale, ad un certo punto della loro carriera, si sono trovati a rispondere Paul, Dave, Larry e Adam, quattro ragazzini di Dublino che avevano messo su una band come fanno milioni di altri ragazzini in tutto il mondo. La loro band, che si chiamava The Hype prima che Adam Clayton decidesse che U2 era meglio, però, a differenza di quasi tutte le altre ce l’ha fatta davvero ad avere successo.
Dagli inizi, e non poteva che essere così, parte Bono sullo spoglio palco di un San Carlo forse mai così eccentrico e festoso, accompagnato da Jacknife Lee (Keyboards, Drums), Kate Ellis (Cello, Backing Vocal) e Gemma Doherty (Harp, Keyboards, Backing Vocal), a raccontare la sua storia. Quella degli U2, certo, ma soprattutto quella della sua famiglia di origine, quella della famiglia costruita con la moglie Ali e poi quella dell’impegno politico e dell’amicizia con Luciano Pavarotti.
Bono perde la mamma quando aveva appena 14 anni, in un modo assurdo. Iris, questo era il suo nome, viene colpita da un aneurisma durante il funerale di suo padre, il nonno di Bono. Da quel momento, racconta, in casa non si è mai più parlato di lei.
Lo spettacolo alterna parti parlate e canzoni, momenti pubblici e personali. City of Blinding Lights, Vertigo e With or Without You in apertura, poi si procede in ordine cronologico, Out of Control e Stories for Boys dal primo album Boy, I Will Follow e Gloria da October. Sono gli anni in cui la band si era legata ad un gruppo fondamentalista cristiano, Shalom, e stava quasi per sciogliersi. Alla fine andarono avanti, un po’ per il pragmatismo di Adam, un po’ per via di un contratto già firmato e fu in quel momento, a quanto pare, che gli U2 decisero che potevano divertirsi, far divertire e provare a cambiare un po’ di cose.
Sunday Bloody Sunday, Pride, il Live Aid con Bob Geldof nel 1985, poi il viaggio in Etiopia con la moglie Ali e il successo planetario con The Joshua Tree. Tutte storie che Bono racconta inframmezzate dai dialoghi avvenuti nel tempo con suo padre Bob, in un angolo del Finnegan, il loro pub preferito, che lui chiama Sorrento Lounge. Sono dialoghi a volte esilaranti, a volte drammatici. Bob finge di non interessarsi alla vita da rock star del figlio, Bono cerca di urlare sempre più forte per farsi sentire dal padre. Come quando si presenta tronfio annunciando che il giorno prima lo aveva chiamato Luciano Pavarotti (che più volte viene definito il più grande cantante della storia dell’umanità) e si sente chiedere dal padre se per caso non avesse sbagliato numero.
Il pubblico partecipa (complice anche il divieto di utilizzo degli smartphone, che all’ingresso vengono sigillati e alcune parti dello spettacolo sottotitolate), tiene il ritmo durante le parti cantate, tira il fiato quando il racconto si fa più teso e la voce di Bono più profonda. Le canzoni sono presentate nella versione dell’ultimo album degli U2, Songs of Surrender, con nuovi arrangiamenti e persino qualche parola cambiata qui e là, mentre sullo sfondo scorrono i disegni realizzati dal cantante. Pochissime le improvvisazioni. Una di queste riguarda, manco a dirlo, la stretta attualità, visto che vengono citati i Campioni d’Italia e Victor Osimhen.
Bono è in forma, la voce non ha tentennamenti, è a suo agio nel one man show. Cita i Ramones, i Clash, Patty Smith e Bob Dylan come numi tutelari della band. Ammette che lui non sa suonare, così come Adam, e all’inizio nemmeno cantare. Si diverte a prendere in giro sé stesso e i suoi fratelli, ma su una cosa diventa serissimo: quando parla delle campagne Cancella il debito, One e (Red), delle migliaia di milioni di dollari raccolti, del suo essere andato in giro a parlare e farsi foto con gente che non gli è mai piaciuta (i politici) solo per portare a casa un risultato, della lotta alla povertà e alla diffusione dell’Aids.
Anche l’incontro con Pavarotti fu nel segno dell’impegno, quello portato avanti con il Pavarotti and Friends. Bono ci andò con The Edge e i rispettivi padri. In quell’occasione avvenne anche l’episodio più esilarante raccontato nella serata, quando il papà di Bono (cattolico e sempre piuttosto ostile nei confronti della famiglia reale) si squagliò letteralmente alla vista della Principessa Diana. “800 anni di oppressione dimenticati in 8 secondi”, commenta Bono.
Verso la fine, dopo aver cantato Desire, Where The Streets Have No Name e Beautiful Day, Bono spiega perché lo spettacolo si chiama Stories of surrender: la resa di cui parla è stata quella agli altri, a chi lo ha amato, a chi gli è stato vicino. In politica è stata la resa al compromesso. Nella musica è stata la resa agli altri 3 della band. Una resa che sa di cambiamento, di evoluzione, di continuo mettersi in gioco.
E proprio per mettersi in gioco e dimostrare (ancora) qualcosa al padre che lo aveva sempre considerato “un baritono che crede di essere un tenore”, Bono chiude con una intensa interpretazione di Torna a Surriento. Anzi, per la verità dopo l’ovazione del pubblico le interpretazioni diventeranno due, visto che (forse per esigenze di riprese) Bono chiederà scusa e si esibirà di nuovo nello stesso brano.
L’uscita di scena avviene tra cori da stadio (Olè olè olè, Bono, Bono e addirittura ‘O surdato ‘nnammurato) e lunghissimi applausi.