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Napoli e la tirannia della potenzialità

Se hai la potenzialità per fare qualcosa allora lo devi fare, e che se non lo fai hai fallito. Vale per il Napoli dello scorso anno e per le troppe parole sulla città

Napoli e la tirannia della potenzialità
Db Napoli 07/05/2023 - campionato di calcio serie A / Napoli-Fiorentina / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: tifosi Napoli

Spesso si parla della tirannia dell’esistente: l’essere inchiodati a ciò che è, pensando che la realtà, questa realtà, esaurisca in sé ogni possibilità ulteriore.

In questa tirannia il pensare altro e in altro modo è, semplicemente, insensato. La trappola è drammaticamente efficace, poiché relega la diversità nello spazio del nonsenso, del capriccio o, al più, del sogno. Buono quindi per una poesia o in adolescenza, ma non per il pensare e agire adulto, maturo. Togliere parola e spazio di pensiero all’altro è il modo più efficace di limitarne l’agire, poiché il terreno sul quale l’agire nasce è fatto di parola e pensiero, come Hannah Arendt ha sempre ricordato. Oggi persino la scuola, istituzione che dovrebbe per sua natura coltivare lo spazio per pensare l’impensato, è intrappolata nel gioco delle competenze per un mondo preformato, già pensato altrove.

Esiste anche, però, a parere di chi scrive, una tirannia diversa, più subdola e, forse, più attraente: quella della potenzialità. È la tirannia che dice che se hai la potenzialità per fare qualcosa allora lo devi fare, e che se non lo fai hai fallito. Se invece riesci hai semplicemente fatto ciò che già era in te e aspettava solo di essere riconosciuto. Hai la potenzialità per farlo quindi devi farlo. Se ci riesci me lo dovevi, se non ci riesci sei, ancora una volta, incompiuto. È bene ricordare che tale incompiutezza viene misurata su finalità insieme esterne – sono io a stabilire ciò che tu puoi fare – e arbitrarie – come faccio a dimostrare che non ho quella potenzialità o, più semplicemente, voglio fare altro? Quando poi una persona, una squadra, o una città introiettano il ricatto allora il cerchio si chiude: ci si ritrova, per giorni, mesi o anni, a dover raggiungere un obiettivo perché qualcuno là fuori lo reputa possibile, e quindi dovuto. La tirannia diventa autotirannia, una sorta di masochismo dell’incompiutezza. Il Napoli e Napoli sono, oggi, paradossalmente, proprio quando hanno vinto e si mostrano nella loro straordinaria bellezza, sotto il giogo di questa tirannia. ‘Napoli potrebbe…’ e ‘Il Napoli a questo punto dovrebbe…’ sono l’incipit di ogni possibilità che diventa dovere.

Ecco, la rabbia di Spalletti – perché di rabbia si è trattato, e la rabbia talvolta è giusta – che denuncia la narrazione folle del “fallimento” dello scorso anno, va a rompere questo ricatto. Non si tratta di essere litigiosi, di prendersela con qualcuno purchessia, e forse neanche di rivendicare il proprio lavoro. Si tratta di affermare con forza quello spazio di autodeterminazione, di libertà e di crescita che ognuno di noi deve avere, fuori da ciò che altri giudicano dovuto. E forse anche il suo modo di partecipare alla festa dopo Napoli-Fiorentina, così peculiare, contemporaneamente dentro e fuori quell’esplosione di felicità, è lì per spiazzare i discorsi sul futuro – discorsi che, ce ne stiamo accorgendo, rubano il presente. Il suo sorriso sornione è lì per dire che il possibile è un terreno sacro che appartiene innanzitutto a chi lo coltiva. Perché il paradosso della tirannia del possibile è proprio questo, e cioè che mina alle fondamenta ciò che dovrebbe affermare: la coltivazione del talento.

Questo perché il terreno sul quale il talento si mostra e cresce è di una fragilità estrema; in più, è elusivo: ama nascondersi. Ma di certo questo terreno si mostra nel presente, nella gioia, nella pienezza di ciò che si vive, che certo è tensione al futuro, al miglioramento; è pazienza, proiezione, progetto. Ma il progetto non ha nulla a che vedere con l’arbitrio di un traguardo fissato altrove, un traguardo che deve dare soddisfazione ad altri e non a chi quel talento lo nutre.

E allora viene da pensare anche a Napoli, e alla retorica del “la città non è ancora”, che fa il paio con “cosa potrebbe diventare Napoli se…”. Pragmaticamente questa retorica ti dice “in fondo hai fallito” e “non sei come voglio io, come devi essere, e non lo sarai mai”. È, questa, una sottile forma di violenza, che vuole sminuire e manipolare ciò che è stato già raggiunto, una violenza coltivata da napoletani e non, che poi è l’altra faccia della retorica del bel tempo, del mandolino e dell’ammuina, retorica meravigliosamente messa fuori gioco da Troisi in un monologo memorabile. Credo che sia ora di smarcarsi e provare a vivere al di fuori di questa tirannia.

In uno degli atti fondativi della modernità Kant parlava di uscita dal senso di minorità, intesa come incapacità di servirsi della propria intelligenza senza l’altrui guida. Kant aggiungeva che tale minorità è colpevole quando non dipende dalla mancanza di intelligenza, ma dalla mancanza di coraggio e decisione. Ecco, sarebbe ora di incominciare.

 Vivere al di fuori di questo giogo è un’attitudine quotidiana ad essere nel presente e a coltivarlo, ognuno nella sua professione, nel suo lavoro, nelle sue relazioni. Vivere al di fuori di questo giogo è godersi una Napoli mai così piena di visitatori, gli sguardi rapiti, attoniti nelle strade azzurre. È dire che Troisi, che tanto, giustamente, ricorre nelle narrazioni di questo scudetto, non è solo un attore e un autore straordinario, ma uno dei maggiori artisti, e quindi pensatori, del Novecento. Perché nel Novecento pochi hanno mostrato con la stessa potenza di Troisi le trappole e il nulla che ci sono nel linguaggio e nella possibilità – i definitivi ‘qual è ‘sta parola, Franky?’ e ‘quale altra alternativa? Je aggio sempe tenuto una alternativa’ in Ricomincio da tre. E allora Eduardo, Totò, Troisi, certo. Ma anche Svevo, Pirandello, Troisi; anche Beckett, Wittgenstein, Troisi.

Napoli ha bisogno di molte cose – e quale città non ne ha? Forse però ha anche bisogno di un movimento semplice: liberarsi da condizioni di successo ed esistenza determinate altrove e da un futuro sempre di là dal venire. Sorrentino e Martone, i tesori del Mann e l’unicità di Pompei, ci sono oggi; una festa che ha unito pezzi di mondo, da New York a Berlino, da Buenos Aires alla Corea, sta accadendo oggi, ed è una festa unica nella storia dello sport. È una festa che non rimanda a nulla e che non chiede nulla; basta a sé stessa. Semplicemente è. Il progetto, oggi, è la contemporaneità di passato e presente, vivi, insieme, nell’essere gettati in avanti. Nessuno sa dove e, soprattutto, che nessuno ce lo venga a dire.

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