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Djokovic: «Rispetto Federer e Nadal, ma non siamo mai stati amici. Tra rivali non è possibile» 

Intervista al CorSera: «Quando il tennis finirà, mi piacerebbe fare l’attore a teatro. I pensieri negativi non vanno respinti, ma accolti e lasciati passare».

Djokovic: «Rispetto Federer e Nadal, ma non siamo mai stati amici. Tra rivali non è possibile» 
Serbia's Novak Djokovic takes rest between the games against France's Enzo Couacaud during their men's singles match on day four of the Australian Open tennis tournament in Melbourne on January 19, 2023. (Photo by Martin KEEP / AFP) / -- IMAGE RESTRICTED TO EDITORIAL USE - STRICTLY NO COMMERCIAL USE --

Aldo Cazzullo intervista Novak Djokovic per il Corriere della Sera. Djokovic parla diverse lingue: inglese, francese, italiano, spagnolo. Cazzullo gli chiede in quale lingua pensa in campo.

«In serbo. In campo mi arrabbio in serbo, gioisco in serbo, mi vergogno in serbo. Anche se con lo staff, quando non voglio farmi capire dagli altri, parlo in italiano. Del resto sono quasi tutti italiani: Edoardo ed Elena i manager, Claudio il fisioterapista, Marco il preparatore atletico…».

Djokovic se la cava anche con il portoghese, il cinese, l’arabo. Ne fa una questione di rispetto.

«È una questione di rispetto per il Paese. Quando vedono che ti sforzi, apprezzano. Più lingue sai, più valore hai. Non dico come uomo; intendo il valore delle relazioni, la ricchezza dell’amicizia».

Il tennista serbo racconta un episodio della sua infanzia: l’incontro con un lupo, quando aveva dieci anni, in montagna, in Serbia. La paura provata, ma anche una specie di connessione dell’anima.

«È stato un incontro breve, ma molto importante. Perché il lupo simboleggia il mio carattere. Sono molto legato alla mia famiglia, e cerco di essere disponibile con tutti; ma a volte devo stare da solo. Spesso nella vita mi sono ritrovato solo. Solo con la mia missione, con i miei obiettivi da raggiungere. Sono rimasto connesso con quel lupo. Anche perché il lupo per noi serbi è sacro. È il nostro animale totemico. È il simbolo di una tradizione nazionale, di una fede ancestrale che precede il cristianesimo. Una religione prima della religione».

Djokovic racconta l’incontro con l’ex tennista Jelena Gencic, che lo scoprì.

«Da lei ho imparato tutto. Se sono così perfezionista, è perché lei lo era. Aveva scoperto Monica Seles, e mi faceva una testa così: vuoi una coca cola? Monica Seles non beve coca-cola. Vuoi un hamburger? Monica Seles non mangia al fast-food… Mi ha fatto crescere anche come uomo, mi ha preparato alla vita. Il mio approccio olistico, l’attenzione a quel che mangio, a come dormo, a come recupero, a come accolgo i pensieri, l’ho trovato in lei. Mi portava a casa sua e mi faceva ascoltare la musica classica… Mozart, Bach, Vivaldi. Mi leggeva le poesie di Pushkin. E mi faceva vedere i video dei campioni: il rovescio di Agassi, il servizio di Sampras, la volée di Rafter e di Edberg, il dritto e i salti di Becker, quei salti che non ho mai imparato a fare».

Naturalmente, nell’intervista trova ampio spazio la questione vaccino. Djokovic dice:

«Ho subìto tutto sulla mia pelle. Molte persone hanno apprezzato che io sia rimasto coerente. Il 95 per cento di quello che è stato scritto e detto in tv di me negli ultimi tre anni è totalmente falso».

Per mesi lo hanno chiamato Novax Djokocovid.

«Io non sono no vax e non ho mai detto in vita mia di esserlo. Non sono neppure pro vax. Sono pro choice: difendo la libertà di scelta. È un diritto fondamentale dell’uomo la libertà di decidere che cose inoculare nel proprio corpo e cosa no. L’ho spiegato una volta alla Bbc, al ritorno dall’Australia, ma hanno eliminato molte frasi, quelle che non facevano comodo. Così non ho mai più parlato di questa storia».

Com’era il posto in cui l’hanno trattenuta in Australia? Djokovic:

«Un carcere. Non potevo aprire la finestra. Io sono rimasto meno di una settimana, ma ho trovato ragazzi, profughi di guerra, che erano lì da moltissimo tempo. Il mio caso è servito a gettare luce su di loro, quasi tutti sono stati liberati, e questo mi consola. Un giovane siriano era lì da nove anni. Ora è in America, quando tornerò quest’estate lo voglio ritrovare e invitare a vedermi agli Us Open; anche con lui mi sento connesso. Il giudice australiano ha accolto il mio ricorso; ma il ministro dell’Immigrazione, che ha il potere di deportare chi vuole senza ragioni, mi ha espulso. Io però non ho violato le regole. Sono entrato in Australia con i documenti necessari e corretti, come ha riconosciuto il magistrato del primo processo».

Ma non era vaccinato.

«Avevo avuto il Covid ed ero guarito. Ho rispettato tutte le norme e non ho messo in pericolo nessuno. Eppure una volta là sono diventato un caso politico, uno che metteva in pericolo il mondo. Il sistema, di cui i media sono parte, esigeva un bersaglio, che fosse opposto al mainstream; e lo sono diventato. Mi hanno messo l’etichetta di no vax, una cosa del tutto falsa, che ancora adesso mi fa venire il mal di stomaco. Poi si è scoperto che la situazione della pandemia era molto diversa da come veniva presentata. Ora l’Organizzazione mondiale della sanità ha scritto che il virus non è più così grave, che fa parte di tutti i virus che abbiamo…».

Djokovic si sente tirato in mezzo ad una spaccatura che ha riguardato l’intera società.

«Però si è divisa la società. E io sono stato messo in mezzo, additato come persona non grata. Mi sono ritrovato solo; ma quella volta mi sono sentito la pecora, circondata da venti lupi. E un uomo solo contro i grandi media non ha chance. Io dimentico in fretta, sono concentrato sulle cose positive. Ho avuto il Covid una seconda volta. Ho sempre accettato le regole, non potevo andare in America e non sono andato, ho rinunciato a due Us Open per restare coerente con me stesso. Non ho parlato, perché ho visto che quel che dicevo veniva distorto. Sono tornato in Australia e ho vinto. Però sono rimasto deluso. Dai media e da molti colleghi. Nomi non ne faccio. Ma quando mezza società è contro di te, allora vedi la vera faccia delle persone. E molte persone hanno girato la testa dall’altra parte. Molti giocatori e qualche organizzatore».

Racconta i sacrifici fatti dal padre per consentirgli di giocare a tennis.

«Con la guerra avevamo perso tutto, anche la pizzeria. Mi fece vedere un biglietto da dieci marchi e disse: questo è tutto quanto ci resta. La retta della scuola che aveva aperto in Baviera Niki Pilic, l’ex campione cui ero stato segnalato da Jelena, ne costava cinquemila al mese. Mio padre lo fece per farmi capire che avevo una responsabilità. Andò dagli strozzini. Criminali. La Serbia al tempo dell’embargo era un posto pericoloso. Gli chiesero un interesse del 12,5 per cento. Poi aggiunsero: hai fretta? Sì? Allora facciamo il 15. Anche mia mamma ha lavorato tanto, ha sofferto tanto».

Com’è stato davvero il suo rapporto con Federer? Djokovic:

«Non siamo mai stati amici, tra rivali non è possibile; ma non siamo mai stati nemici. Ho sempre avuto rispetto per Federer, è stato uno dei più grandi di tutti i tempi. Ha avuto un impatto straordinario, ma non sono mai stato vicino a lui».

È vero che all’inizio eravate amici con Nadal, ed è finita quando lei ha cominciato a batterlo?

«No. Nadal ha solo un anno più di me, siamo tutti e due dei Gemelli, all’inizio siamo anche andati a cena insieme, due volte. Ma anche con lui l’amicizia è impossibile. L’ho sempre stimato e ammirato moltissimo. Grazie a lui e a Federer sono cresciuto e sono diventato quello che sono. Questo ci unirà per sempre; perciò provo gratitudine nei loro confronti. Nadal è una parte della mia vita, negli ultimi quindici anni ho visto più lui della mia mamma…».

Djokovic dice che quando smetterà con il tennis gli piacerebbe diventare attore.

«Quando il tennis finirà, mi piacerebbe fare anch’io l’attore. A teatro però».

Il tennista serbo è noto per la sua forza mentale, per il talento di giocare i punti decisivi meglio di quelli normali. Grasso gli chiede cosa intenda quando dice che bisogna “accogliere i pensieri”. Risponde:

«I pensieri negativi non vanno respinti, ma accolti e lasciati passare».

 

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