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Spalletti e l’arte di saper andar via al momento giusto – l’elogio del New York Times

È stato eretico nel calcio: ha lasciato subito dopo il trionfo. Se n’è andato perché il suo lavoro era finito. E ha lasciato intatto il ricordo di sé

Spalletti e l’arte di saper andar via al momento giusto – l’elogio del New York Times
Napoli's Italian coach Luciano Spalletti portrayed during the Italian Serie A football match between Napoli and Fiorentina at the Diego Armando Maradona stadium in Naples on May 7, 2023. (Photo by Eliano Imperato / Controluce via AFP)

Luciano Spalletti elogiato dal New York Times, da Rory Smith nella sua newsletter dedicata al calcio. Il titolo scelto è: “Luciano Spalletti e il potere di andarsene”.

Il Nyt parte dalla fattoria di Spalletti in Toscana e poi si sofferma sulla stagione che definisce utopica. Lo scudetto 33 anni dopo. E vinto con abbondante anticipo.

Il Napoli ha alzato il trofeo con un mese di anticipo. Le sue ultime partite son state un carnevale, una festa. Spalletti e i suoi giocatori hanno trovato le loro immagini (le sagome, ndr) sparse in tutta la città, lo stesso tipo di culto delle icone religiose più tradizionali.

Il Nyt scrive che nel calcio la decisione di Spalletti confina con l’eresia.

Il New York Times ricorda che Spalletti a Napoli, a 64 anni,

ha finalmente espresso la sua visione di calcio. È sempre stato apprezzato come un allenatore bravo, un tattico sofisticato, persino un visionario. È stato Spalletti, alla Roma, ad aver aperto la strada o reso popolare l’idea del “falso nove”.

Era, però considerato uno degli eterni secondi dello sport. Aveva quasi vinto la Serie A con la Roma. Aveva quasi vinto con l’Inter. È stato uno dei tanti allenatori bollati “zeru tituli” — zero titoli — da José Mourinho, per il quale il successo è misurato solo dall’albo d’oro di una pagina di Wikipedia. Al Napoli, lo stile di Spalletti ha finalmente trovato la sua sostanza. La sua squadra ha giocato in maniera non meno attraente, non meno innovativa, non meno fantasiosa delle sue squadre precedenti, ma stavolta ha vinto, e ha vinto, e ha vinto. Napoli è stato il suo capolavoro, eppure non l’aveva neanche completato che già lo aveva abbandonato. Non lo ha fatto, come vuole la tradizione, per assumere un ruolo più importante, o più generosamente remunerato. Spalletti se n’è andato perché il suo lavoro era finito.

C’è un adagio nel calcio — nello sport in generale — secondo cui il lieto fine non esiste. Tutti gli allenatori vengono licenziati, prima o poi, indipendentemente da ciò che ottengono o da quanto vincono. (…) Questo è vero, certo, ma è in parte vero perché i dirigenti sono così raramente disposti a fare ciò che Spalletti ha fatto. C’è sempre qualche problema da risolvere, qualche miglioramento da fare, qualche leggero difetto da correggere. C’è sempre la possibilità che il prossimo anno sarà migliore. E c’è sempre, soprattutto, un altro trofeo da vincere.

Spalletti ha fatto il contrario. Ha deciso che aveva raggiunto l’apice, e che qualunque cosa sarebbe venuta dopo avrebbe comportato un arretramento.

Piuttosto che rischiare di offuscare ciò che ha raggiunto, piuttosto che raddoppiare, ha preferito lasciarlo, perfetto e inviolabile, dove si trova. Ha il suo premio, e nel vincerlo ha avuto anche il suo monumento. Ha fatto ciò che tanti altri ottengono spendendo tante energie: ha assicurato che la sua eredità rimarrà incontaminata, intatta. Nel rifugio che si è costruito alle porte di Montaione, Spalletti assaporerà la gioia semplice e dimenticata che deriva dal sapere quando allontanarsi.

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