A Sette: «Per un complesso di superiorità ogni tanto crediamo di essere unici e questo ci impedisce di guardare al mondo».
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Mario Martone racconta Napoli e la sua unicità, nel bene e nel male, in un’intervista a Sette, settimanale del Corriere della Sera.
«Napoli è davvero una città a parte. Sin dai tempi della fondazione greca qui a Napoli c’è una costante, qualcosa di permanente, che va oltre la storia, la attraversa e la sorpassa, e questa cosa è il disincanto».
Martone spiega:
«Incanto e disincanto convivono a Napoli perfettamente, perché il dolore provocato dalla perdita delle illusioni è sublimato attraverso la creatività. Così anche ora che il turismo di massa la fagocita e la omologa, Napoli resta diversa. Sa lasciarsi usare, si abbandona al cliché che le viene richiesto, ma indossando quell’aria un po’ così, quel perenne sorriso all’angolo della bocca di chi dice: “io so come tu mi vuoi, e se mi vuoi così, eccomi”. Attenzione: questa città ha sempre un secondo livello, e voi che venite a cercare “la vera Napoli” dovete saperlo che c’è dell’altro oltre quello che vedete. Il nostro popolo sa fare una cosa difficile: sa osservarsi mentre vive. E dunque sa giocare con lo sguardo altrui. È un teatro su cui non cala mai il sipario».
L’arte del disincanto e della disillusione è la cosa buona della “diversità” napoletana. Ma, come tutte le cose, ha il suo lato oscuro. Martone continua:
«Ed è l’autoreferenzialità. Un complesso di superiorità che ogni tanto ci fa credere che siamo unici, che bastiamo a
noi stessi, che dobbiamo solo conservarci come siamo, con le nostre tradizioni, in purezza per così dire, senza lasciarci contaminare dalla modernità e dal mondo. Questo è un errore che ci ha fatto perdere tanto tempo, tante occasioni, tanto progresso. Perché ci impedisce di vedere che Napoli è invece una città del mondo, e perciò deve guardare al mondo. Quando facevo teatro di avanguardia con la compagnia di Falso Movimento andavo spesso a New York, e mi colpiva il fatto che in quella metropoli i confini tra i quartieri, tra quelli pericolosi e quelli gentrizzati, tra quelli per turisti e quelli veraci, cambiavano di continuo, di anno in anno. A Napoli no, questo non succedeva, era come se barriere invalicabili separassero, e ancora separino, rioni e ceti. Credo che ci siano borghesi di Posillipo che non sono mai stati a Ponticelli o San Giovanni a Teduccio. Quando ho messo in scena il mio primo Eduardo, con Il sindaco del Rione Sanità, l’ho fatto a San Giovanni a Teduccio, in una palestra trasformata in teatro dal Nest, un gruppo di giovani ma già grandi attori. E una sera ho chiesto al pubblico: alzi la mano chi è venuto oggi per la prima volta in questo quartiere. Le mani alzate furono molte, la maggioranza. D’altro canto io stesso non conoscevo così bene la Sanità di Eduardo e Totò, il quartiere diventato ormai il simbolo della napoletanità, riconoscibile in tutto il mondo, dove ho poi girato Nostalgia. A quei tempi era una zona quasi inaccessibile, le catacombe che oggi sono visitate da migliaia di persone erano ancora chiuse, padre Loffredo e i suoi ragazzi non erano ancora arrivati ad accendere questo quartiere. Così la conobbi attraverso San Giovanni a Teduccio, mettendo in scena un testo teatrale. Ecco, questa permeabilità, questo continuo spostarsi dei confini, è per me la cifra caratteristica di una città viva, che cambia come ogni organismo vivente, e al cui interno puoi viaggiare».
C’è ancora chi vuole Napoli bloccata.
«C’è chi la vuole ancora città bloccata, che si limiti a preservare il suo patrimonio – in effetti enorme – di storia e cultura. È lo stesso dilemma che si è proposto con il teatro, tra tradizione e convenzione. Le città, come i testi, vanno anche tradite per poterle far rivivere, c’è un passato che va messo a morte per rinascere. La convenzione uccide. La tradizione vive se viene superata».
Lo dimostra il terzo scudetto vinto dal Napoli di De Laurentiis dopo l’ultimo di 33 anni fa con Maradona.
«Non vorrei abusare delle metafore calcistiche, ma perfino la vicenda del terzo scudetto ci dice questo. La squadra messa su da De Laurentiis, a sua volta un napoletano atipico, è la fotografia di un grande cambiamento: molti giovani, quasi nessun big, pochissimo sudamericana, ma incredibilmente globale con ben 18 nazionalità rappresentate. Molto diversa insomma dalla tradizione Maradona-dipendente dei due primi scudetti. Si potrebbe dire, parafrasando Troisi, che Napoli davvero ricomincia da tre».
Martone parla di Eduardo e Massimo Troisi.
«Entrambi erano anime dilaniate. Napoletani fino in fondo eppure così internazionali; figure inquiete, che si interrogavano sulla condizione umana universale, che era poi il contenuto profondo della loro opera. E questo ciò che ha fatto di Eduardo il più grande scrittore italiano del ‘900. Ed è questo ciò che stava proiettando Massimo nel mondo, a travalicare i confini della sua originale comicità. Anche loro avvertivano la “diversità” di Napoli come un tema spinoso».