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Goodbye Lobotka, lo spaesamento dell’uomo che ha visto Ostigard portare palla

Lobotka si aggira per il campo come la protagonista nel film a cui fanno credere che la Ddr è ancora viva: non gli hanno detto che il muro di Spalletti è caduto

Goodbye Lobotka, lo spaesamento dell’uomo che ha visto Ostigard portare palla

Nessuno ha avuto ancora il cuore di chiedere a Lobotka. Come stai? Se vuoi parlare un po’, Stan, noi siamo qui. Perché il dubbio è che Lobotka ancora non abbia capito. Che lo stiano preservando, girandogli attorno: ogni tanto un passaggio come usava un tempo, una somministrazione a lento rilascio, ma poi basta. Che come alla signora Christiane di “Goodbye Lenin”, finita in coma prima della caduta del muro di Berlino e risvegliatasi dopo, all’uomo chiave del Napoli scudettato nessuno abbia detto che il mondo è cambiato. Le Germanie si sono riunite, la figlia lavora in un fast food, il figlio produce tg posticci della tv orientale per tenerla sedata, tranquilla, nella sua realtà infranta. Kvara che manda a quel paese Garcia avrebbe potuto essere per Lobotka l’elicottero che porta via l’enorme statua di Lenin. Cos’è successo? Chi è quell’uomo in panchina che detta cambi pescandoli dal panariello della tombola? Datemi la palla, su. Affidatela a me, vi siete sempre trovati bene, no? Dormi, Stan. Shhhhh…

Bisognerebbe chiedere a lui, la chiesa al centro del villaggio del Napoli di Spalletti. Di più: il Cardinale Voiello di quel Vaticano azzurro, l’uomo delle trame, del ricamo, degli intrecci. Geometra, architetto e ingegnere. Ora testimone oculare diretto del buco nero di schemi che ha portato il Napoli a non tirare mai nella porta del Genoa per 90 minuti. A rischio, forse, d’essere insensibili. Di sfidare quello spaesamento che gli si legge in faccia ogni volta che Ostigard porta palla, superandolo. Oh, Osti, addo vai?! E’ un trauma, va negato.

Continua a fare gli stessi movimenti che faceva a maggio. Una stagione fa che pare un secolo. Accorcia e detta un passaggio che non è più il suo. La palla viaggia – più che altro caracolla – seguendo rotte incoerenti, controvento. Era una calamita, ora il gioco (quale?) del tecnico francese è come se lo respingesse. A volte rimbalza tra i reparti, come la pallina impazzita d’un flipper in tilt. Dà l’idea d’un uomo solo, vagante, troppo timido per cercare l’aiuto di chi potrebbe indicargli la via di casa.

Oppure ha capito, Stan. Come Christiane. Il figlio le racconta la fuga al contrario dei cittadini di Berlino Ovest verso l’Est. E cosa c’è di più aderente alla crisi del Napoli se non un’immaginaria deflagrazione del capitalismo occidentale? Era troppo, quel Napoli di Spalletti. E’ stata una meravigliosa storia d’un anno, una clamorosa botta e via. Poi la realtà è andata fuori giri.

“Ci vuole tempo per abituarsi alle novità. Giochiamo in modo leggermente diverso rispetto al precedente allenatore”, ha detto l’ultima volta che l’hanno mandato in conferenza stampa. E quel “leggermente” adesso assume il tono fantozziano dell’iperbole. Sembra un “come è umano lei!”. Potessimo chiedere a Lobotka cosa pensa quando la squadra gli gira attorno senza guardarlo, con l’indifferenza che si riserva all’ex che ancora non sa di esserlo, forse gli daremmo modo di sfogarsi. Anche Christiane, nel film, sopravvive alla sua amata Ddr.

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