Il calcio italiano sta regredendo come mentalità, convinto di una superiorità che non esiste più da anni. I migliori fuggono, non solo per soldi.
Messi e Napoli. Messi e l’Italia. Una boutade, ovviamente, ma anche un’occasione per guardare in faccia le miserie del nostro sistema calcio. Non solo quelle economiche, come scrive Marco Ciriello oggi sul Mattino. Parla di filosofia, e ha ragione. Noi però aggiungeremmo altri temi. Altri versanti da cui osservare questa utopia. I soldi contano tanto. C’erano negli anni Ottanta e infatti arrivavano tutti o quasi tutti i migliori. Ci sono altri due aspetti che sarebbe interessante approfondire. Uno è legato al sistema calcio, a quella mentalità che sempre più avvolge il mondo del pallone. Quella mentalità che ha respinto de Boer come se fosse un idiota e ha trattato Benitez come un altrettanto bonaccione incapace di fare questo mestiere. In fin dei conti, il calcio italiano sembra la volpe di Esopo con l’aggravante di rendere ridicola l’uva nella fantasiosa ipotesi che il grappolo cadesse tra le sue zampe. L’ultimo grande nome che è venuto in Italia e si è calato perfettamente nel sistema è stato Mourinho. Che non a caso dopo Milano, di fatto, ha vinto molto poco: un campionato a Madrid (la sua esperienza castigliana è stata definita deludente) e uno al Chelsea, questo sì di rilievo. Gli altri grandi nomi della panchina restano tutti lontani dal calcio italiano. E non sappiamo se sia soltanto una questione di soldi. Assistiamo, anzi, al fenomeno inverso. Ancelotti non allena più in Italia dal 2009, Conte guida il Chelsea, Lippi non ha più scelto un club italiano dopo la Nazionale, lo stesso vale per Capello. E potremmo proseguire a lungo.
Bielsa non è venuto in Italia non solo per soldi. Sarebbe stato deriso e trattato come uno scemo. L’Italia è il paese calcisticamente ancora fermo al ritiro pre-partita, tanto per dirne una. In cui è quasi impossibile sperimentare. Ci sentiamo superiori all’universo mondo anche se, di fatto, prendiamo scoppole da quasi un decennio: fallimentari gli ultimi due Mondiali, ci salva la finale conquistata da Prandelli (anche lui in Spagna) agli Europei del 2012. Per non parlare delle Coppe europee, non ne vinciamo una dal 2010 (Mourinho, appunto). Eppure ci sentiamo i migliori.
Vale anche per i calciatori. È rimasto Higuain, all’estero considerato diversamente rispetto all’Italia, e poco più. Pogba se n’è andato. C’è Buffon ma lui è italiano. Dybala che non a caso è corteggiato dal Real Madrid e lì finirà. Siamo un mondo a parte, una provincia orgogliosa di regole e principi che fuori dai nostri confini nessuno segue.
Messi, che ovviamente non verrebbe mai in Italia per assenza di adeguata copertura economica, non arriva nemmeno a pensare a Napoli e all’Italia. Poi in questo caso ci sarebbe anche un altro aspetto – il secondo -, non marginale: quello psicanalitico. Andrebbe nelle fauci del mostro da cui sta disperatamente tentando di fuggire da dieci anni. Sarebbe la vivificazione dell’autolesionismo.
Sarebbe però interessante se riflessioni del genere invitassero a un’apertura mentale del nostro calcio, dei dirigenti ma soprattutto di chi questo fenomeno lo racconta. Ci stiamo rinchiudendo sempre più nel nostro piccolo mondo antico. E lo facciamo persino con orgoglio.