Quel “noi puniamo, la giustizia italiana no” sembra un film di Chuck Norris (o Bud Spencer): la giustizia sportiva perdona, poi santifica i colpevoli
Succede a tutti i famosi “addetti ai lavori” prima o poi. Oddio, pensi per un attimo, Gravina dice cose sensate. È un abbaglio della percezione, dovuto alla stanchezza. Siamo sfiancati evidentemente dai tentativi ad oltranza del presidente della Federcalcio di riposizionarsi, lui e il movimento che governa, dalla parte del giusto. Di solito Gravina si esprime in Gravinese, un esperanto diretta derivazione della retorica democristiana che produce mostri tipo “endofederale“. Un dialetto che i giornali passano ai lettori affinché questi ultimi possano immediatamente voltare pagina, respinti dal concetto ma peggio ancora dalla fatica di capirci qualcosa.
Poi Gravina, d’improvviso, prende a parlare a ruota più o meno libera. Si lascia andare. E dice che l’Italia s’è smarcata da un’eventuale candidatura congiunta per i Mondiali 2030 con Egitto ed Arabia Saudita, per “ragioni legate al caso Regeni”. Quello è il titolo per i giornali, almeno per quelli disposti a lasciargli ancora spazio in pagina. È l’abbagliante di cui sopra, che ci coglie come cerbiatti di notte in mezzo ad un tornante di montagna. Dice anche che i genitori asfissianti con i piccoli calciatori sono “una piaga”. Gravina contro le chat dei papà, sarebbe un gran titolo. Oddio, ecco: dice cose sensate.
Però Gravina nel frattempo ha detto un’altra cosa che non troverete, se non ammacchiata bene in un trafiletto nonsoddove, sui giornali di stamattina:
«Il mondo del calcio è ritenuto colpevole, non so di che cosa, dato che per la legge italiana le scommesse sono lecite»
Poi detta anche il titolo a supporto: “Noi puniamo, la giustizia italiana no”. Tipo Chuck Norris.
La premessa di Gravina è che “nel mondo dello sport sono fondamentali le questioni morali“, ma il presidente della Figc – e vicepresidente della Uefa – è animale politico troppo accorto per scantonare con considerazioni a vanvera. È un tentativo di deviare la discussione in un multiverso in cui la Giustizia Sportiva è rappresentato come la mano spietata della legge, mentre nella realtà s’è perso il conto delle sentenze annacquate usate per tappare le evidenti falle del sistema.
In Italia certo che si può scommettere, anzi lo Stato ci lucra come fa per decine di altre debolezze umane. Il punto è che sono i calciatori a non poter scommettere. Per cui la giustizia sportiva sarebbe chiamata a “punire” davvero, nel caso. Non a trasformare i colpevoli in vittime, prima di avviare l’iter della beatificazione. Gravina nelle scorse settimane ha rilanciato Tonali e Fagioli come “testimonial” della lotta alla ludopatia, “ragazzi che per me sono dei figli e non possono diventare carne da macello”.
Il calcio, il suo calcio, più che altro dovrebbe esporsi ad un vero, pubblico, esame di coscienza. Lo scriveva il Guardian giorni fa: “Le sospensioni aiutano ad alimentare la finzione che il calcio sia uno stato di diritto, un regno di valori e parità di trattamento, piuttosto che quello che è diventato: un centro di smistamento per il traffico di denaro e influenza. Tonali è il capro espiatorio di un sistema guasto”.
Quel “Noi puniamo, la giustizia italiana no” va inteso più per citazione di Bud Spencer, caso mai; solo che là era Dio che perdonava, e lui no.