Nel Napoli di Sarri c’è proporzione estetica e lui è diventato il sacerdote della paura con cui da sempre convive la città. La bellezza ti tramortisce o non esiste, come il Napoli di Benitez.
Vorrei provare a rispondere all’articolo di Mario Colella su Sarri e la città di Napoli. In parte perché in esso egli descrive bene alcuni dei concetti chiave con i quali sono in fondamentale disaccordo, in altra parte per mostrare al lamento costante dei benpensanti che da sempre il Napolista di Massimiliano Gallo è un luogo aperto nel quale l’obolo da pagare per l’accesso sono la pazienza, la capacità ed il gusto necessari a sostenere una discussione.
Per non finire come Veltroni
Partirò da una considerazione che viene fatta nell’articolo e che è largamente condivisa. Quella secondo la quale Hamsik, come Jorginho, siano stati rivitalizzati e valorizzati da Sarri dopo il biennio precedente che li vide spenti, al termine di una logorante involuzione. Per argomentare devo contravvenire alla regola che, da rafaelita, mi sono imposto e seguo dal giugno 2015 – quella di non citare più Benitez in un mio pezzo; ma, visto che i non rafaeliti lo tirano spesso in ballo e volendo decisamente evitare di finire come Veltroni alle politiche del 2008, farò qui una eccezione.
Hamsik con Benitez
L’Hamsik del biennio rafaelita è stato la propria quintessenza. Ha firmato il più alto numero di reti in stagione, tredici. È stato sostituito molto spesso. Ha condotto il Napoli in semifinale di Europa League e alla vittoria in Supercoppa contro la migliore Juventus del quinquennio. È stato lui, e in lui ci siamo totalmente rispecchiati: incostante, volenteroso, in metamorfosi, dubbioso, inadeguato, sull’onda di un tecnico con lui mai paterno che egli non ha mai amato, anzi che ha probabilmente spesso odiato quando lo ha costretto con ogni mezzo a gettarsi fuori di sé, fuori posizione, fuori ruolo, fuori chiave. Questa è l’essenza di un vero Maestro: gettarti in un luogo sconosciuto e non curarsi dell’odio che gli serberai per quella violenza.
La seconda stagione di Benitez è stata la sua migliore
A differenza di quanto spesso si dice, a mio avviso la seconda stagione di Benitez è stata di gran lunga la migliore del suo biennio. Su queste pagine ne scrissi come “una stagione eccezionale”. Ricordo ancora che la sera dell’ultima drammatica partita di campionato contro la Lazio festeggiavo l’anniversario di matrimonio su un terrazzo della Nerudova a Praga. Un panorama limpido di una bellezza quasi insopportabile. Mia moglie, sorridendo, mi accarezzava la mano come si fa con quelli che hanno appena assistito a una tragedia cosmica che nessuno psichiatra a cinquecento euro a seduta potrà aiutarti ad elaborare. Avevo lo sguardo ridicolmente fisso e perso nel vuoto. Ero tramortito. E per questo reputo quella stagione eccezionale. Perché la bellezza tramortisce o non esiste.
Si confondono la geometria e il sincronismo con la bellezza
Questo è il punto essenziale, a mio avviso. L’illusione retorica della bellezza del gioco. Si confondono la geometria, la preparazione, il sincronismo con la bellezza, in quello che io considero un errore determinante. La bellezza è assassina, punta alla morte di chi ne viene trafitto, ammazza. Ha una direzione, non gira in tondo all’infinito. Della bellezza non si usufruisce. Essa si vive, a rischio dell’esistenza, o semplicemente non è. Ciò che si definisce bellezza del gioco, nel caso del Napoli sarriano, è piuttosto intrattenimento. Il “gusto”. La proporzione estetica. Tutte cose legittime ed utili, ma diverse. La bellezza è solo blasfemia. Ed io l’ho vista solo quell’anno, quando abbiamo assistito ad una squadra di giovani di belle speranze, piccoli ed inesperti, essere scagliati contro i flutti del mondo, a Wolfsburg; o nel cuore del turbinio, in casa contro la Roma. O in una finale a ridosso di Natale, quando un portiere ora considerato un calimero del calcio ha fermato con una sola mano i bianconeri di Pirlo e Tevez.
E poi siamo morti, come in una tragedia, travolti dagli eventi che non abbiamo saputo e potuto controllare, perché eravamo una evidente zattera rimediata alla meglio nell’occhio di un ciclone che non potevamo domare. Ma siamo stati armati dell’incoscienza che serve a superarsi, ad uscire fuori di noi, come Hamsik, a dimenticarci ogni identità.
La lunga cavalcata della propria controriforma
Una incoscienza che il Napoli di Sarri ha avuto solo per un periodo, l’anno scorso, durante una parte del girone di andata. Sino alla partita contro l’Inter in casa – ed anche di questo scrissi sul Napolista – quando il gruppo si accorse di aver sublimato la paura come in un rito di iniziazione, ed ebbe paura di non avere paura. Lì il Napoli di Sarri si è ridestato ed ha iniziato la lunga cavalcata della propria controriforma, la città è tornata alla normalizzazione della convivenza col suo naturale terrore, del quale l’allenatore è divenuto sacerdote. Tutti tornati nei ranghi. Jorginho con tanti passaggi. Hamsik con tanti passaggi. Eppure la noia di nessuna ambizione. La quiete.
“Un libro deve essere un pericolo”
Disse una volta Cioran che un libro “deve essere un pericolo”. Altrimenti non è un libro. Io credo che valga la pena estendere questo concetto. L’arte, la bellezza devono essere percepite come un pericolo alla nostra esistenza, devono minare la nostra vita, ogni aspetto di ciascuna nostra certezza, oppure sono un sereno intrattenimento. Una nuova serie tv. Il nuovo romanzo del bravo autore compaesano che regaleremo sotto l’albero in una serata da Parenti Serpenti. Il pericolo viene dal domani, dal nostro disperato ma ambizioso cercare di farci interpreti di realtà che non possediamo. La strada per dimenticare tutti i nostri passati è tralasciare i bravi preti che continuano a ricordare sull’altare come era educato ed onesto il dolce defunto e chiamare uno straniero, uno che ci conosca ma di noi se ne fotta, dei nostri riti, delle nostre anime, per ricordarci che siamo al centro di niente. Per dirla con Stirner, per fondare finalmente la nostra causa sul nulla.
Al rafaelita non interessa l’entertainment del pallone
Voglio concludere ricordando un episodio. Solo una volta ho mandato un pezzo a Massimiliano Gallo ed egli decise di non pubblicarlo. Credo abbia preso la decisione giusta. Era un pezzo forse inutilmente provocatorio. Provo a rielaborare oggi, brevemente e spero meglio, quel concetto: al rafaelita – quale io credo di essere – non interessa vincere. La vittoria è menzogna. Ma – attenzione – non interessa neppure il gioco per il gioco, l’assenza della competizione. L’entertainment del pallone. Al rafaelita interessa quel saliscendi di quell’anno, frutto della lotta degli inadeguati del mondo che sentono un destino comune e si attrezzano ad una impresa impossibile. Scippare l’oro al più ricco. Che poi potrebbe non capitare. Potrebbe costarti la galera. Come al Noodles di Sergio Leone. In un destino comune che io continuo a sentire, mentre guardo Sarri che mi e ci rappresenta, soprattutto nella nostra volontà mai sopita di celebrare quotidianamente i funerali in dolce memoria di tempi che non torneranno. Sarri rappresenta di sicuro una parte di me, e me lo tengo. Ma la mia ambizione rimane tutt’altra.