Oggi viene deriso eppure è lui ad avere insegnato ai calciatori della Roma come stare nelle partite, a mordere campo e avversari. A essere squadra
Oggi José Mourinho è un impronunciabile. Calcisticamente e mediaticamente un appestato. Non solo per coloro i quali lo hanno sempre avversato e considerato finito. Persino le radio romane stanno provvedendo a un rapido revisionismo della sua esperienza giallorossa. Il suo carro si è svuotato. Su quello di De Rossi sono esauriti anche i posti fuori dal finestrino. È il football, bellezza. De Rossi ha avuto un impatto sorprendente sulla panchina della Roma. In campionato su undici partite ne ha persa solo una, quella contro l’Inter. Ne ha pareggiate due (a Firenze e a Lecce) e ne ha vinte otto. Oggi è virtualmente in Champions, essendo quinta in campionato. Mourinho lasciò alla ventesima giornata, ed era nono in classifica. In più, De Rossi è fin qui riuscito a proseguire lo straordinario lavoro del portoghese in Europa. Due finali in due anni: una vinta, in Conference; l’altra persa, in Europa League, con un arbitraggio che ancora oggi fa discutere. Con De Rossi la Roma è arrivata ai quarti di Europa League, ha eliminato il Feyenoord, il Brighton di De Zerbi e ieri sera ha vinto 1-0 a San Siro contro il Milan.
In questo quadro, difendere Mourinho equivale a un suicidio giornalistico. Soprattutto in un tempo in cui siamo siamo drogati di consenso. Ma se negli Stati Uniti hanno prodotto e distribuito lo splendido film “American fiction”, possiamo serenamente scrivere quel che pensiamo a proposito di José. E cioè che è enormemente sottovalutato il lascito romanista del portoghese. In due anni e mezzo, con un lavoro svolto in profondità nella testa dei calciatori, Mourinho ha insegnato ai suoi a giocare la partita. A stare mentalmente nella partita. Chi conosce appena appena lo sport (basta aver partecipato a un torneo di bocce sulla spiaggia) sa che si tratta di un patrimonio inestimabile che è il fondamento, la base, per qualsiasi attività agonistica. Che prescinde da qualsivoglia modo di stare in campo.
È una vittoria di Mourinho (dovremmo dire una straordinaria vittoria di Mourinho) vedere come oggi stanno in campo i calciatori della Roma. Come azzannano ogni centimetro del terreno di gioco. Come mordono gli avversari in qualsiasi situazione. Come in men che non si dica formano una corazza nelle situazioni complesse e adottano quei trucchi (che i puristi definiscono antisportivi) che spesso ti conducono alla vittoria. Lo abbiamo visto nel derby. Lo abbiamo visto nella partita di ritorno col Feyenoord. In tre anni, la Roma è profondamente cambiata nel modo di stare in campo. Quando sabato scorso abbiamo visto Dybala quasi menarsi con Guendouzi e poi a fine partita prodursi nel volgarissimo gesto con le mani verso le parti basse, abbiamo avuto la certezza di quanto il lavoro di José avesse scavato in profondità nell’anima dei calciatori. Soffermarci su Mancini equivarrebbe a voler vincere facile. Ci perdoneranno gli assolutisti del calcio disegnato se consideriamo l’aspetto tattico una parte molto relativa (oseremmo e osiamo dire decisamente modesta) di una partita di calcio. Il pallone è sangue e merda. E oggi la Roma è una squadra che va battuta su più piani. Su quello tattico. Su quello agonistico. Su quello psicologico. E su quello della personalità.
Noi non sappiamo cosa sia accaduto nello spogliatoio della Roma. Ci crediamo che alcuni calciatori non avessero gradito le continue esternazioni con cui il portoghese tendeva a sminuire il valore della rosa. Ci sta. Forse avevano anche ragione. Forse. I fatti stanno dando loro ragione. Ma se hanno avuto questa capacità di reagire e di dimostrare a José che così un’armata Brancaleone non erano, è anche perché lui ha insegnato loro a reagire, a farsi rispettare. E a dare l’anima su un campo di calcio. Perché lui, alla maniera di Helenio Herrera, li ha fatto sentire grandi. Ha insegnato loro a essere una squadra. Non arrivi due volte consecutive in finale in Europa se non sei diventata una squadra. E lo scorso anno la Roma ha eliminato la Real Sociedad e il Bayer Leverkusen.
Tutto ciò non sminuisce e per certi versi non c’entra niente col lavoro di De Rossi. Sono i frutti del lavoro alla Roma di Mourinho. Qualcuno, più di qualcuno, storcerà il naso. O riderà. Molto probabilmente saranno gli stessi che il primo anno di Ancelotti a Napoli (Ancelotti eh, non Peppe lo stagnaro) affermavano con prosopopea che la squadra girava perché giocava ancora seguendo a memoria gli ingranaggi di Sarri. Non ci dilunghiamo per spiegare che era vero com’è vero che Belgrado è la capitale della Tanzania. Il calcio oggi, soprattutto nella narrazione, anzi forse quasi esclusivamente nella narrazione, è sconfinato nella contesa ideologica. Il campo, per fortuna, è un’altra cosa. È sudore. È sacrificio. È capacità di soffrire nei momenti in cui sembra girare tutto storto. È capacità di riuscire a compiere un ultimo sforzo quando il tuo corpo è esausto. È lungo l’elenco. Molto lungo.
Mourinho ha trasmesso alla Roma e ai suo calciatori (non conosciamo il lavoro svolto all’interno, con i dirigenti) il sapere per andare nel mondo da soli. È quel che ogni genitore dovrebbe fare con i figli per ritenersi realmente soddisfatto.
p.s. Ed è il motivo per cui chi scrive che José Mourinho resti l’allenatore ideale per il Napoli del prossimo anno. E per qualsiasi club che voglia realmente formare una squadra.