È uno di quegli uomini convinti che senza intelligenza non vai da nessuna parte, uno che non si vergogna della nostra tradizione calcistica
Poco prima che scoppiasse il Covid, Carlo Ancelotti era a Liverpool sponda Everton. Nella cittadella dei blu, Ancelotti si intratteneva con gli uomini del suo staff. «Lui – disse presentando un uomo dello staff – ha lavorato con Trapattoni in Irlanda». E poi allontanandosi gli disse: «Trapattoni, number one».
Carlo Ancelotti è uno di quegli uomini convinti che la specializzazione sia importante ma che conti meno senza l’intelligenza. E intelligenza vuol dire adattamento alla situazioni. Vuol dire saper essere incudine e martello a seconda delle circostanze. E a Manchester, contro l’armata Guardiola che ha una squadra e una panchina di extralusso, Ancelotti è riuscito a far capire ai suoi che sarebbe servita intelligenza. Oltre al sacrificio di rimanere in the box. A chiudere ogni varco. Perché è da stolti andare a cercare la bella morte quando si può sopravvivere.
E Ancelotti col suo Madrid è sopravvissuto al ritorno all’Etihad. E andato in vantaggio con Rodrygo. Poi ha resistito. Ha subito il gol dell’1-1. Ha dovuto togliere dal campo i suoi attaccanti. È andato ai rigori, li ha tirati con Lucas Vazquez, Nacho, Rudiger, tre difensori e ha vinto.
È stata una battaglia. Ancelotti ha vinto da allenatore. Soprattutto, ha vinto da generale. È un uomo che non si vergogna della tradizione calcistica italiana. Anzi. È uno degli ultimi simboli del made in Italy. Mattarella ci pensi, lo nomini senatore a vita. È molto più che un allenatore.