Giocare di giovedì in campi ai confini dell’Europa, con le trasferte infinite e un incasso esiguo? No, non conviene, sarebbe solo sfiancante
Conviene al Napoli partecipare alla Conference League? Alla terza serie d’Europa?
Il cerchio a Udine si è chiuso l’anno scorso, non ieri. In terra friulana si è consumata l’insostenibile pesantezza dell’essere il Napoli quest’anno. Ci perdoni Kundera ma non si era mai visto tanto disagio nel difendere un vantaggio contro una squadra rassegnata alla retrocessione. Non si era nemmeno mai visto un tale masochismo da parte di un tecnico che lascia in campo calciatori boccheggiare, e brucia tre slot con tre soli uomini.
Cannavaro, con tutti i limiti della sua rosa, le ha azzeccate tutte senza nemmeno crederlo sul serio, si è ritrovato un punto donato all’ultimo giro di corsa. Un regalo che può tornarci utile.
La Conference League sarebbe solo sfiancante
Conviene davvero al Napoli partecipare alla Conference League? Alla terza serie delle coppe europee? Giocare di giovedì in campi ai confini dell’Europa, con le trasferte infinite e un incasso esiguo? No, non conviene, sarebbe solo una sfiancante serie di amichevoli internazionali che potrebbe rappresentare un fastidioso alibi per il campionato. Questo Napoli poi, per tutto il carico fallimentare che si è trascinato in questa stagione, non meriterebbe tale premio di consolazione ma una serie presa di coscienza che esuli dalla riconoscenza del tricolore. La società rifondi, partendo dalla scelta di un allenatore gestito da un manager capace e non dalla proprietà e dai suoi umori.
Quando la Conference vinse Mourinho (Mario Piccirillo sul Napolista due anni fa)
Non è Mourinho ad aver vinto la Conference League. E’ il contrario: è la Conference League ad aver vinto Jose Mourinho. Potesse, quell’inanimata e sproporzionata coppa di metallo, alzerebbe al cielo l’allenatore della Roma, sfilando in trionfo con il suo trofeo umano. L’uomo che ha preso una “coppetta” appena neonata, l’ha svezzata, l’ha cresciuta, e alla fine l’ha consegnata al suo futuro: “Vai a papà. Segui la Champions e l’Europa League, ora sei grande pure tu”.
L’avesse vinta un altro, un qualsiasi pur bravo allenatore di mezza classifica, ne staremmo commentando l’esaltazione con condiscendenza un po’ snob: guarda quello, ha battuto “i salmonari” e si commuove. C’è ovviamente chi ci prova lo stesso, sfidando il moribondo senso del ridicolo. Invece, essendo Mou un brand vivente, il meccanismo funziona per converso. Ceferin è in sollucchero, l’Uefa non poteva scegliersi un testimonial più efficace per lanciare il suo nuovo prodotto. Gratis, per giunta. Se lo ritrovano che vaga per uno stadio di Tirana – Tirana! – con le mani in faccia manco fosse il 2004, la Champions con il Porto, o il 2010, quella con l’Inter.
Ogni parola che dice è un gancio pubblicitario. Ogni smorfia contrita è un credito spendibile sul mercato della rilevanza. La Coppa di terzo livello? Se la vince Mou, e la vince sciogliendosi a quel modo, non c’è derisione che tenga. Scatta il riverbero del blasone: c’è davvero qualcuno là fuori che può permettersi di sfottere uno che ha vinto 26 titoli in carriera – lui, Ferguson, Trapattoni (“quanto mi fa sentire vecchio”, dirà) – e una Coppa europea 19 anni dopo essersi preso la Coppa Uefa col Porto, nel 2003?