L’autore di Gomorra ha avuto un ruolo importante nella crescita di Napoli ma ora sta cadendo nel classico errore degli intellettuali di questa città
Quello che è sbagliato è scappare in un immaginario falso di una città rinata, di risorse rinnovate che invece sono inesistenti.
Ho riletto due o tre volte questa frase ed ogni volta mi ha fatto sempre lo stesso effetto. Non certo benefico, non salutare – come dovrebbe essere la frase di chi si ritiene intellettuale al servizio di una città – ma una sorta di rantolo amaro per chi è stato costretto a lasciarla ed ora non la riconosce più e parla di una città perduta, coi suoi mali insanabili che affliggono ma legano ugualmente anche colui che ne è stato vittima. Come il ragazzo che viene abbandonato dalla fidanzata e lei, invece di imbruttirsi (nella mente del lasciato è una sorta di compensazione per il trauma ricevuto), si fa invece più bella, sfrontata, come se si fosse liberata invece di un peso.
Quando scoppiò il fenomeno Saviano
Quando scoppiò il fenomeno Saviano fui il primo a difendere colui che consideravo per l’appunto un bravo ragazzo, un coraggioso giornalista al servizio della città. Non mancarono le critiche, ma da qualunque scranno parlassi, prendevo le difese dello scrittore e del giornalista a spada tratta. Citavo gli esempi di scrittura civile per dimostrare come anche il racconto romanzato potesse essere utile alla causa, scoperchiare calderoni infernali, spingere a cercare, a conoscere i fenomeni che ci spaventano. La letteratura impegnata, la scrittura che spezza il muro di gomma. Dicevo questo anche ai miei colleghi dell’Ansa, ai cronisti che già gridavano al plagio. “Se anche fosse, l’ha detto meglio di voi” ripetevo loro.
E nella scrittura questo “dire più o dire meglio” mi ricordava la contrapposizione tra il “trobar clus” (il gergo chiuso, sterile) rispetto al “trobar leu” dell’esplosione della letteratura occitanica da cui nacque anche la letteratura italiana. Ovvero l’inventiva e la creatività della scrittura scorrevole e fluida, che predilige l’apertura, e che permette di scoperchiare i drammi del reale con tocchi leggeri.
Le sue pennellate caravaggesche
Ecco perché i pezzi di cronaca e gli stralci dei processi ai quali ha attinto Saviano non ci hanno mai emozionato (né mai ci emozioneranno) mentre il racconto di Saviano sì, quello ci ha aperto un mondo. Inutile negarlo. Quello stile precipuo, quelle pennellate caravaggesche ci hanno fatto entrare in luoghi che non avremmo mai voluto visitare, ci hanno fatto conoscere il fenomeno della camorra meglio di decine e decine di articoli e faldoni di tribunali inaugurando uno stile, una maniera di raccontare, di romanzare e perché no l’inizio di una letteratura sulla camorra (il primo passo per la guarigione non è forse il vissuto che viene raccontato?)
Ancora oggi mi preme riconoscere grandi meriti a Roberto Saviano. Senza quel suo libro non ci sarebbe stata quella reazione (delle autorità, della società) che ha portato Napoli ad andare avanti, a farsi un esame di coscienza, a capire che la camorra si vince anche con la cultura, con una società più solidale, si vince col teatro, con l’arte, con tutte le manifestazioni del pensiero.
È convinto che Napoli abbia bisogno di lui
Ma questo ultimo passaggio penso che Saviano non lo abbia colto. O almeno stimo lui creda che la città, dopo essere stata liberata da quelle parole, debba per forza di cose rimanere in attesa, silenziosa, delle sue parole ancora oggi, dopo 10 anni, per progredire, per dimostrare di potercela fare. E che non sia capace di farlo da sola. Insomma non si riesce mai ad uscire dal rapporto controverso che gli intellettuali hanno avuto con la città di Napoli. Tanto prodigarsi in consigli e teorie perfette, tanto elogiare la storia e l’arte di questa città ma parole sferzanti quando la città cammina da sé e dimostra a volte anche di non aver più bisogno di intellettuali. Non sempre almeno.
“Ricordati che devi morire”
Il Saviano di oggi non lo riconosco. Non nascondo che Napoli abbia i suoi problemi, ed anche molto gravi. Inutile girarci attorno quando nel centro di Napoli si continua a sparare. Non è questo il problema. Un giornalista punterebbe il dito contro queste storture, contro una città tutt’altro che guarita. Ma il problema, a mio avviso, è quel disfattismo che mi suona obsoleto, una campana a morto che suona anche quando c’è un nascituro, una cerimonia funebre che incalza anche quando passa un ridente e colorato corteo con gli sposi, il frate che in “Non ci resta che piangere” dice a Massimo Troisi: “Ricordati che devi morire” e lui che risponde: “Si, si mo’ m’o segno”.
L’immaginario della città “inguaribile”
In fondo Napoli, più che quel “ricordati che devi morire” di Saviano, è quella rassegnata strafottente ironia di Troisi nel rispondere al lugubre vaticinio del frate (dobbiamo morire tutti, lo sappiamo, inutile che tu me lo ripeta, intanto famm campà). Il disfattismo di Saviano mi suona fuorviante, fuori dalla realtà di una città che è oggettivamente cambiata (nessuno può negarlo) e che Saviano oramai non ri-conosce più, preferendo rifugiarsi nell’immaginario della città “inguaribile” (quella di Bocca, ovvero delle porte dell’inferno insanabile) come se il male partenopeo fosse insondabile, inguaribile, alla stregua dei terremoti, dei maremoti, delle forze cieche della natura contro le quali nulla può opporsi.
Non si accorge dei passi avanti di Napoli
Il suo grido, dalle colonne di Repubblica, non sembra il grido dell’intellettuale inascoltato e sommerso dai fischi del popolino ma una sorta di rantolo che proviene dal suo stesso loculo di vate e liberatore del popolo, soffocato dalle anguste e fredde mura di marmo che lui stesso ha contribuito ad edificare attorno a sé. Quello che non sembra capire Saviano è il fatto che, malgrado certi fenomeni a Napoli siano lungi dall’essere estinti, la città e la società partenopea hanno fatto passi da gigante. E la differenza è tutta qui.
Perché bastonare sempre la città?
Non si tratta di negare che Napoli abbia ancora gravi problemi e che vadano risolti ma in questo momento storico a Napoli c’è chi riesce anche a vedere il bicchiere mezzo pieno e ciò è già di per sé un cambiamento epocale dato che è stato proprio il disfattismo, l’immobilismo a consegnare Napoli all’oblio e alla paralisi per decenni. Ora che la città sta cambiando (anche grazie a lui), ora che la città si alza e cammina da sola, perché sempre bastonarla? Voler che una città rimanga la stessa soltanto per non perdere il legame più profondo con essa è infantile oltre che egoista. Ma in fondo è anche una richiesta inconsapevole di aiuto. Forse è Saviano ad avere bisogno di Napoli e non l’inverso. Le sue parole sono dettate forse dal troppo amore. Ma amare, non dimenticarlo caro Roberto, significa innanzitutto rendere liberi.
@marco_cesario