A La Stampa: «L’idea che l’atleta debba soffrire e che chi scappa non è abbastanza forte è controproducente. Aumenti solo il numero di potenziali campioni che non arrivano a eccellere»
Minisini dopo il ritiro dal nuoto artistico racconta in un’intervista alla Stampa il rammarico per la mancanza presenza di uomini nel nuoto artistico alle Olimpiadi.
Perché nessuno ha sfruttato l’opportunità?
«Si è visto lo stato culturale dello sport e forse non solo quello. Così poco pronti a inserire un elemento di diversità da rifiutarlo in toto».
Quando ha scoperto di non essere in nazionale?
«Mi è stato comunicato ad aprile e non me lo aspettavo. Il progetto era diverso».
Si è detto «non c’è una gara specifica», ma si è sempre saputo che l’unica possibilità era la prova a squadre.
«Sono stati inseriti gli uomini senza creare dei parametri e tutti si sono preparati con 8 donne tentando di aggiungere un uomo nel ruolo di una ragazza. Chiaramente risultava un elemento estraneo».
Minisini sulla mancanza di uomini nel nuoto artistico a Parigi
Stupito che nemmeno un Paese abbia selezionato un uomo?
«È un ambiente conservatore. Uno spreco, potevamo essere considerati pionieri, tracciare una rotta sociale: guardate come si coinvolge, come si mette in pratica l’inclusione. Mediaticamente è assurdo, però nessuno ha fatto il lavoro giusto. Hanno detto, infiliamoci gli uomini, senza creare la possibilità di renderli competitivi. Una scatola vuota, senza integrazione».
Servivano le quote azzurre? Un obbligo?
«Troppo presto. Certe nazionali non hanno ancora investito sui ragazzi e sarebbero state escluse. Occorreva un atto dimostrativo, non lo hanno voluto fare».
C’erano delle preclusioni ideologiche?
«Il nuoto artistico ha aspettato che il problema venisse risolto dall’alto, magari che gli regalassero una competizione extra per fare il doppio misto. Negli sport di giudizio si tende a valutare secondo le aspettative: se c’è un uomo tra le donne vedi una differenza e tendi a dare un voto più basso perché è disomogeneo».
Ci vede un riflesso della società?
«Si sta correndo molto perché siamo tanto in ritardo su battaglie importanti, come l’integrazione, la discriminazione e proprio quando si spinge sull’acceleratore la risposta di contraccolpo è violenta. Quando una cosa è complicata fa paura. In piscina questo è successo e fuori è uguale. Su problematiche reali si innescano chiusure integraliste».
La cultura del risultato è italiana?
«Pensare che il benessere dell’atleta sia sinonimo di rinuncia al risultato è pigrizia. Penso ai grandissimi talenti come la ginnasta Biles e il
nuotatore Peaty. Portarli al burn out ha avuto senso? Penso alla mia storia, io di medaglie ne ho vinte, 4 ori mondiali, smetto prosciugato. L’idea che l’atleta debba soffrire e che chi scappa non è abbastanza forte è controproducente. Aumenti solo il numero di potenziali campioni che non arrivano a eccellere. O lasciano presto. Bisogna essere disposti a fare la fatica di rivoluzionare la visione, peccato che sia proprio quello che spaventa».