Da loro pretendiamo politica, comunicazione, frasi storiche. Anche da Ceccon. Ma sono solo atleti che faticano per l’obiettivo della vita
Angela Carini ad un certo punto s’è inginocchiata al centro del ring. E i giornalisti, lì sotto, stavano ammirando Tommie Smith col pugno alzato, qualcuno più aggiornato Kaepernick genuflesso per il Black Lives Matter. Era un’apparizione. La pugile che protesta contro il Cio, la donna che combatte contro la violenza sulle donne praticata da un’altra donna troppo maschia per picchiare le femmine (certo, come no…). Tutto riassunto in un papocchio ideologico da quella figura simbolica accasciata in lacrime, il capo chino in segno di martirio e di lotta politica. L’avrebbero tradotto, nelle ore seguenti, in pezzi ispirati dalla solita retorica di prassi, sfrizionando chi più chi meno. Persino gli algidi inglesi. Si fa così, è il mestiere.
Però Carini era solo una pugile napoletana che nella vita fino a quel momento aveva sudato in palestra ore e ore e ore. E aveva gareggiato davanti a qualche decina di addetti ai lavori (parliamo di boxe femminile, non fosse per Irma Testa staremmo a contare i trafiletti). Un attimo dopo era sulla bocca social di Donald Trump, Elon Musk, J.K. Rowling e Martina Navratilova. Un impronosticabile metaverso progettato da un visionario sotto anfetamine.
A Carini abbiamo intestato non solo una ribellione politica che non lo era, ma anche una capacità di comunicare, di gestire il clamore, anche solo di rispondere cose sensate che no, non è per niente scontato che abbia. Lei, ma anche tutti gli altri: superatleti perlopiù giovanissimi che di mestiere fanno gli sportivi, si ammazzano di fatica, vogliono vincere. Perché dovrebbero saper parlare davanti ad una telecamera? Perché mai dovrebbero possedere delle skill (si suppone innate) per governare l’ingordigia dei media?
Ceccon – un campione assoluto, mica l’ultimo parvenù – l’altra sera ha vinto la medaglia d’oro, e all’intervistatrice Rai ha detto: “Erano anni che mi preparavo questa gara ma anche l’intervista post-gara, e invece ho appena fatto una figuraccia a Eurosport”. E se n’è andato, mentre la giornalista glissava preoccupata che si citasse un brand concorrente. Nell’intervista a Eurosport Ceccon continuava a ripetere la stessa cosa: che si era allenato per tanti anni a rispondere dopo una vittoria del genere, ma poi non sapeva cosa dire. Peraltro con tempi televisivi involontariamente irresistibili.
Persino il calciatore è uno a cui ci ostiniamo a mettere davanti un microfono pretendendo che risponda chissà cosa e infatti di ritorno tocca ammorbarci con le solite dichiarazioni di plastica. Perché sono ragazzi che giocano a pallone per guadagnarsi da vivere. Nuotano. Tirano cazzotti. Non hanno passato i test d’ingresso di Scienze della Comunicazione quando sembrava un vero corso di laurea (ah i favolosi anni 90).
L’agonismo, quel calvario che s’affronta dalla tenera età per arrivare in pochissimi alle Olimpiadi, non garantisce – ma proprio per niente – che sappiano affrontare il mondo esterno. La luce accecante degli occhi di bue che i Giochi ogni quattro anni puntano su alcuni di loro. Nel bene o nel male. Non è Temptation Island, la ribalta l’hanno sempre sognata prima di scoprire che può essere un incubo.
Carini, in queste ore, è in un tritacarne. La presidente del Consiglio, con furba operazione di cosmesi mediatica, è accorsa al capezzale della poveretta e l’ha trattata – parole di Carini stessa – “come una madre fa con una figlia”. Sia messa agli atti la foto della premier carezzevole: “Un giorno ti picchieranno solo donne certificate, figlia mia”.
E’ stata intervistata, in diretta, al Tg1. Seconda domanda: “Che ti porterai a casa dell’incontro con la Presidente del Consiglio?” . Quando, forse, se le avessero chiesto “tu lo sai perché la scrittrice di Harry Potter parla di te? E se Donald Trump ti invitasse al dibattito con Kamala Harris?”, Carini avrebbe preferito tornare sul ring a farsi pestare da Khelif.
Un giorno appena e siamo già alla fase “salvate la soldatessa Carini”. Da se stessa, soprattutto. Ma anche da noi, il pubblico che non sa distinguere un campione da una suggestione.