All’Equipe: «I disabili erano nascosti. Era una vergogna per le famiglie. Perciò ho fondato l’Accademia. Voglio creare il mondo che sognavo e che non esisteva»
Si avvicina l’esordio di Bebe Vio alle Paralimpiadi di Parigi. Ha rilasciato un’intervista all’Equipe:
Sembra che tu preferisca la scherma paralimpica alla scherma in piedi?
«Ho praticato la scherma in piedi fino all’età di 11 anni. La pista è lunga 14 metri, appena avevo il coraggio di attaccare, ma quando avevo paura tornavo indietro. Sulla sedia a rotelle non puoi andare indietro. Inoltre, sono piccola, quindi anche se provo a indietreggiare con il corpo, vengo colpita! Nel nostro sport dobbiamo necessariamente trovare il coraggio di andare avanti, altrimenti abbiamo già perso. “In guardia”, “pronti”, “vai” e attacchi come un drago altrimenti sei fregato».
Bebe Vi0: «A 5 anni mi sono imbattuta in questi “Zorro bianchi”»
Prima che la meningite stravolgesse la tua vita, che rapporto avevi con lo sport?
«Ero terza nella mia categoria di età a livello nazionale, conducevo già una vita sportiva, trascorrendo molto tempo nelle palestre. Arrivavo due ore prima dell’allenamento, facevo i compiti, vedevo allenarsi i giocatori più grandi e da lì ho imparato. Tutto è iniziato per caso. A 5 anni facevo pallavolo, non mi piaceva, me ne sono andata ma ho sbagliato porta e mi sono imbattuta in questi “Zorro bianchi”! Mi sono messa in fila con gli altri ragazzi, il maestro di scherma era gigantesco».
Come promuove Bebe Vio personalmente l’inclusività?
«Vengo da un’epoca in cui a scuola si diceva ai bambini: “Non sedetevi sulla sedia, altrimenti fate la stessa fine”. I disabili erano nascosti. Era una vergogna per le famiglie. Era necessario non farne più un tabù. La parte più importante è stata quella con i bambini, perché man mano che crescono diventa parte del loro bagaglio culturale. Per questo ho fondato l’Accademia BebeVio a Milano e poi a Roma. Uniamo i due tipi di sport. Se un ragazzino ha male alla caviglia e non riesce più a praticare la scherma in piedi, gli dico: “Ci vediamo domani e gareggerai in sedia a rotelle”. L’handisport non è accessibile a tutti».
Le vostre numerose iniziative non rivelano le carenze delle istituzioni?
«Cerco di aggiungere quello che posso. Voglio riuscire a creare il mondo che sognavo e che non esisteva. Alla mia prima gara paralimpica eravamo 28 in tutte le categorie, era triste… Adesso siamo 300. In Italia va bene. A livello mondiale c’è ancora un ritardo. Guarda gli Stati Uniti: nonostante il loro sistema molto efficace di borse di studio universitarie, gli studenti hanno potuto praticare lo sport paralimpico solo dal 2008. Ora, l’organizzazione dei Giochi Paralimpici sta cambiando, l’ho notato io stesso a Parigi. Ci sono progressi in termini di accessibilità ma anche in campo culturale. Prima, quando camminavo, tutti mi guardavano, oggi non è più così».