A La Lettura il cantautore presenta il suo libro «Vivere/Living»: «Ho impiegato anni a imparare a scrivere canzoni. Ho eliminato la narrazione, lasciando solo l’essenziale»
Vasco Rossi presenta in questi giorni il suo primo libro “Vivere/Living” e La Lettura del Corriere della Sera ci h dedicato un lungo articolo in cui intervista il cantautore:
Vorrei partire da Tondelli…
«Era un uomo libero, aperto, attento, curioso. Tra i pochi che mi hanno capito fino in fondo. Negli anni Ottanta, quanti equivoci sui miei brani. Credo che Vita spericolata sia stata tra le canzoni più fraintese della musica italiana. Parlavo della vita che, io come tanti della mia generazione, avremmo voluto»
«Vivere/Living». Un libro di poesie? Un brogliaccio di annotazioni sulla vita e sul mondo?
«Innanzitutto, è un atto di libertà. Ed è un riconoscimento, come una laurea ad honorem, un Oscar o come quando, agli inizi degli anni Ottanta, De Gregori si è fermato in una strada di Roma per salutarmi. Con Vivere finalmente entro in un’importante collana di poesia».
Diversamente dai protagonisti della Beat Generation, nelle tue poesie e nei tuoi aforismi, ricerchi uno stile semplice ma non ingenuo, diretto ma non spontaneo, capace di far coincidere sensazioni, visioni, pensiero e prosa, intesi come piani che devono combinarsi in un misterioso equilibrio. In un saggio di qualche anno fa, Raffaele La Capria ha parlato di stile dell’anatra. Senza sforzo apparente, l’anatra fila via tranquilla e impassibile sulla corrente del fiume, «mentre sott’acqua le zampette palmate tumultuosamente e faticosamente si agitano:manon si vedono». Anche il tuo è lo stile dell’anatra: immediato,mafrutto di una lunga ricerca. Una pagina di «Vivere/Living », quasi un manifesto di poetica: «Cerco sempre, nelle mie canzoni, di togliere più che di aggiungere. Di esprimere concetti con il minor numero di parole possibili. Di attuare la sintesi! (…) Il mio sforzo è sempre quello di riconoscere la frase più adatta (spontanea, immediata e istintiva) a descrivere quello stato d’animo». Che rapporto hai con le parole, soprattutto in un tempo segnato dall’ipertrofia comunicativa?
«Mi piace l’idea dello stile dell’anatra. Descrive bene quello che mi sta a cuore. Ho impiegato anni a imparare a scrivere canzoni. Sai, non è facile. Serve mestiere. A lungo ho cercato il mio stile: forse, l’ho trovato con Jenny è pazza, che dice molto di me. Mentre i cantautori raccontavano ogni passaggio (pensa a Guccini), io ho eliminato la narrazione, lasciando solo l’essenziale. Negli anni Ottanta, il pubblico non aveva più tempo per ascoltare lunghe descrizioni in musica: andava veloce e ricercava immagini efficaci. C’è un libro che mi ha insegnato l’arte della sintesi. È Meno di zero di Bret Easton Ellis. Ne ho parlato a lungo con la mia amica Nanda Pivano. Una grande emozione i dialoghi con Nanda, la persona che aveva tradotto i miti della mia gioventù: Kerouac, Hemingway».
All’origine di ogni tuo verso c’è anche la ricerca dell’autenticità. Scrivi: «Indago il mio inferno, ci passo in mezzo». E, poi: «Ho fatto un patto sai/ Con le mie emozioni/ Le lascio vivere e loro non mi fanno fuori». Il tuo fine: dissolvere la frontiera che divide la vita dall’arte. «La vita non è una commedia che puoi provare prima. La devi vivere improvvisando», scrivi in «Vivere/Living».
«Mi attengo sempre allo stesso metodo. Preferisco la notte. Ho bisogno di solitudine. Devo isolarmi dal mondo. Essere preso solo da me, senza richiami esterni. Qualche nota di chitarra mi ispira un’immagine. Senza la musica non riesco a scrivere: quando sono in pubblico, mi sento in imbarazzo senza sottofondi musicali. Parto dalla prima frase. Se mi convince, si apre un universo. Vado avanti. Può accadere che mi fermi solo perché sento di dover tornare indietro. Ma occorre non arrestare il flusso che sale dall’inconscio. È come passeggiare nel buio. La parte razionale di me serve solo per riportare sulla carta queste onde emozionali, per evitare che fuggano via. Vado avanti rapidamente, spesso senza ripensamenti, come è accaduto con Sally. E mi chiedo sempre: chissà da quanto tempo quella canzone era in me, chissà da dove è venuta fuori. È sempre un miracolo. Un mistero inspiegabile. Scrivere una canzone vuol dire questo: rinunciare alla zona razionale e logica di sé stessi, fare autoanalisi e interrogare le zone più segrete dell’io, per comunicare con il cuore delle persone».