“Ne abbiamo fatto un eroe della classe operaia, un’icona patriottica, persino un paradigma sfacciatamente capitalista di si percepiva il successo nel 21° secolo”
Conor McGregor è stato condannato per violentato una donna. Strano, ironizza il Guardian. Chi l’avrebbe mai detto. Ma ora, sarcasmo a parte – scrive Jonathan Liew – ecco, ora è facile smarcarsi da questa ex stare delle arti marziali miste. Lo stanno già facendo quasi tutti, compreso gli sponsor che ancora lo sfamano. Ma il punto, la lezione da trarre, è chi e cosa rappresenti McGregor per tutti noi.
Perché non è che lo scopriamo adesso, McGregor. Abbiamo semplicemente fatto finta di non vedere “la volta in cui è stato condannato per aver dato un pugno a un uomo in un pub di Dublino o per aver strappato e distrutto il cellulare di un fan; la volta in cui ha rivolto insulti razzisti a Floyd Mayweather e al suo entourage; la volta in cui ha chiamato il rivale Khabib Nurmagomedov, un musulmano praticante, uno “stronzo retrogrado” per essersi rifiutato di bere whisky, o ha chiamato il manager di Nurmagomedov “un terrorista” e sua moglie “un asciugamano”, o ha lanciato un carrello di metallo contro il suo van”. Ah e poi c’è questa.
“Il combattimento con Nurmagomedov , il suo caotico crescendo, le violente conseguenze e le ricadute tossiche, è spesso considerato l’inizio del declino di McGregor. Forse è vero in senso strettamente atletico. Ma l’universo più ampio di McGregor, il sinistro culto del contenuto, dell’hype, della rivendicazione commerciale e dell’adulazione parasociale che ha costruito attorno ai suoi talenti, è durato per anni dopo che quei talenti lo hanno abbandonato. Fin dall’inizio McGregor ci ha detto e mostrato chi era. E nonostante questo, forse anche per questo, è stato lodato, applaudito, riccamente ricompensato”.
“Il fascino nocivo di McGregor non è mai stato semplicemente per quello che poteva fare con un rapido contrattacco sinistro o una gomitata sanguinante. Fin dall’inizio è stato esaltato come qualcosa di più: un eroe della classe operaia, un’icona patriottica, una figura ambiziosa, un modello per un certo tipo di mascolinità, forse persino un paradigma (sfacciatamente capitalista) di come appariva e si percepiva il successo nel 21° secolo. Dove criminalità e controversia, razzismo e sessismo, abilismo e omofobia sono semplicemente parte di una tradizione irresistibile, un modo pratico per vendere biglietti e pacchetti pay-per-view”.
Dicevano che fosse… “divisivo”. “Come se fosse una questione di gusto personale, come mettere prima la marmellata o prima il burro, sul pane”.
McGregor rappresenta una visione del mondo “in cui l’unico valore è guadagnato attraverso fama, ricchezza e forza fisica: il rancido triangolo della fantasia maschile. Dove tutti i nostri problemi possono essere risolti con la violenza. Dove non devi mai scusarti, mostrare vulnerabilità, dire la verità. Dove, come disse una volta in modo così memorabile, “il doppio campione fa quello che cazzo vuole“.
Poi Liew chiude di nuovo col sarcasmo, perché McGregor fu sul punto di candidarsi alla presidenza dell’Irlanda: “Immagina una nazione che elegge come suo presidente un uomo ritenuto responsabile di violenza sessuale. Oh, wait…”.