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Peruzzi: «Scudetto? Conte ha una fede dentro che fa la differenza, vive per quello. Il gioco dal basso mi fa ridere»

Al CorSera: «L’esordio? 17 anni. Liedholm dice: fate entrare il ragazzino. Tutta la panchina si volta, io mi volto: vedo i barellieri. Pruzzo dal campo: deficiente, tocca a te»

Peruzzi: «Scudetto? Conte ha una fede dentro che fa la differenza, vive per quello. Il gioco dal basso mi fa ridere»
As Roma 20/05/2018 - campionato di calcio serie A / Lazio-Inter / foto Antonello Sammarco/Image Sport nella foto: Angelo Peruzzi

Angelo Peruzzi, da Blera, provincia di Viterbo, classe 1970, è stato uno dei migliori portieri del mondo per un decennio. Lo chiamavano Cinghialone, «ma non mi piace, preferisco Tyson, me lo mise Liedholm», dice al Corriere della Sera. Oggi sta lontano dal calcio. Perché, secondo lui, «tutto è cambiato. I giocatori? Un’azienda. I portieri? Più bravi coi piedi che con le mani. Io oggi mica potrei giocare. Non fa per me. Meglio i boschi, la natura». L’intervista è di Marco Cherubini.

Peruzzi: «La vicenda doping? Mesi d’inferno, divenni uomo»

13 dicembre 1987, San Siro, Milan-Roma. Un petardo dalla Sud sfiora Tancredi che ha un malore e deve essere sostituito. Il debutto in serie A.
«17 anni, ero riserva. Liedholm dice: fate entrare il ragazzino. Tutta la panchina si volta e io che ero l’ultimo, mi volto: vedo i barellieri. Pruzzo dal campo: deficiente, tocca a te».

Il ritorno a Roma, il controllo antidoping, la squalifica per doping di 12 mesi. Un mondo che crolla.
«Ero ingenuo, un “bambacione”. Finii dentro quella brutta storia. Solo il grande presidente Viola fu gentile con me. Gli altri? Spietati. Tornai a casa: i giornalisti, la vergogna con la gente di Blera. Mesi d’inferno. Ma divenni uomo. Non mi fidai più di nessuno. E poi squillò il telefono. Montezemolo. Mi voleva la Juve: tornai a vivere».

E Peruzzi che diventa il portiere più forte del mondo.
«Ma non scherziamo, dai. Prima c’era Zenga, molto più bravo di me. E poi io ho sempre visto gli altri parare meglio. Toldo, Pagliuca. In Under 21 Antonioli faceva parate che io nemmeno immaginavo».

Prima dell’addio, il Mondiale 2006: Lippi la sceglie come vice di Buffon, ma di fatto un vero team manager.
«Ma no, andai perché volevo giocare. Abbiamo vinto quel Mondiale per due ragioni. La rabbia di molti per la storia di Calciopoli che ci aveva sputtanato a livello internazionale. E quelli che non giocavano o giocavano poco: davamo il massimo in allenamento. Fu quello il segreto del gruppo».

Poi il team manager l’ha fatto davvero, alla Lazio:
«Era bello fare da unione tra la squadra e la società».

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Poi però con Lotito…
«Ma no, sfatiamo una leggenda: sono andato via in pace. Lui ha il suo carattere, ma pure io: permaloso, tanto. E capoccione, testardo. È finita. Giusto così».

Oggi chi para meglio?
«Sono tanti. Sono bravi. Ma sto gioco dal basso mi fa ridere. Dice: serve per fare gol. Se non sbagli però. Se qualcosa va male, hai il nemico in casa. Ma siamo matti?».

Chi vince lo scudetto?
«Non so. Posso dire che Antonio (Conte, ndr) ha una fede dentro che fa la differenza. Vive per quello. Tutti i giorni, sempre».

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