Al Giornale dopo il primo posto nella classifica di vivibilità: «L’incarnazione femminile di Bergamo è Sofia Goggia. Ci riposiamo lavorando, anche d’estate»
Feltri: «A Bergamo zero disoccupati perché il lavoro è una malattia. Qui non picchiano i medici al pronto soccorso»
Feltri scatenato sul Giornale nella celebrazione di Bergamo città più vivibile d’Italia nella classifica del Sole 24 Ore. In prima pagina del Giornale tesse l’elogio di Bergamo e dei bergamaschi.
Scrive Feltri:
Provate a passare da Bergamo o dalle cittadine e i borghi spersi tra valli e pianura, in un giorno feriale. Fermatevi in piazza. Intorno tutto fila in ordine, i furgoni, le auto, i Tir. Poi puntano verso le autostrade riempiendo quattro o cinque corsie. Le persone a piedi vanno svelte. La spesa, le commissioni, gli insegnanti, i medici e gli infermieri non bighellonano ma sono già in corsia dall’alba, nessuno aggredisce i camici bianchi nei pronto soccorso.
Il fatto è questo: non c’è neanche un disoccupato, semplicemente perché nessuno ha voglia di esserlo, non esiste in natura il disoccupato bergamasco, ed è una malattia contagiosa quella del lavoro. Il lavoro non abbrutisce l’uomo, non lo disarticola rendendolo inabile a godersi la vita, ma ne è la premessa e la ricetta vincente anche per l’arte e lo sport. Il lavoro prepara il piacere, anzi è esso stesso piacere, incoronato qui dalla gloria dell’Atalanta, ad esempio. Chi ritiene l’arte del cross e del gol, figlia della pigra atmosfera delle sdraio e dei mandolini è stato spianato come la pasta per la pizza dalla fantasia che sgorga dal lavoro di squadra.
Cita Gasperini, Donizetti nell’arte, Papa Giovanni nella religione e Gimondi nel ciclismo.
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Prosegue Feltri:
L’incarnazione femminile di Bergamo è Sofia Goggia, che è nata qui, e porta dentro una capacità di resuscitare figlia della capacità di non lasciarsi schiacciare dal dolore. Si era spaccata rovinosamente le gambe, mille pezzettini, la davano per spacciata, niente Olimpiadi del 2026 a Bormio della neve, dietro le montagne di casa sua. Senza piagnistei davanti agli altri, ma nel buio della fisioterapia chiusa in una stanza, mostrando allegria fuori, arriva e vince.
Bergamo e la Bergamasca erano in ginocchio, forse per pregare meglio. Solo piegandosi fino a terra poi ci si può tirare su. Fecero lo stesso i giovani alpini e i veci, quelli che d’estate vanno in Africa con gli ultrà dell’Atalanta a scavare pozzi e costruire scuole per i villaggi dove sta il parente missionario da trent’anni in Kenia, Mozambico, Burundi. Si riposa lavorando. Penso in bergamasco, e questo è un guaio perché poi mi tocca tradurre, e si perdono le sfumature. Non tradirò mai la mia esistenza paesana, rustica e ruspante. Mi riconosco in ogni orobico, che si riconosce in un detto riassuntivo: «Set bergamasca, fiama de rar, ma sota la sender brasca». Cioè: «Gente bergamasca, raramente si infiamma, ma sotto la cenere cova la brace». Eravamo cinquantesimi in graduatoria tre anni fa. Adesso primi. Mai molà, scet!