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Sacchi: «Nel paese del furbetti e del risultato ad ogni costo, a Usa ’94 figurammo come primi dei perdenti»

A Libero: «Ho il dispiacere di veder valutati come non positivi risultati eccelsi, i ragazzi arrivarono a Pasadena lessati. Si costruisce con le idee. Ne vedo qualcuna in giro»

Sacchi: «Nel paese del furbetti e del risultato ad ogni costo, a Usa ’94 figurammo come primi dei perdenti»
1994 archivio Storico Image Sport / Italia / Roberto Baggio-Arrigo Sacchi / foto Aic/Image Sport

Libero intervista Arrigo Sacchi. Non ha bisogno di presentazioni particolari. Se qualcuno si chiede in che condizioni versa il calcio italiano, Sacchi può dare spunti di riflessioni interessanti. Poi c’è un tema tanto caro a Sacchi: il Mondiale 94. Quello non lo dimenticherà mai.

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Sacchi: «Ho il dispiacere di veder valutati come non positivi risultati eccelsi»

Sacchi, coltiva rimpianti nella sua carriera?
«No. Solo il dispiacere di veder valutati come non positivi risultati eccelsi».

Per esempio?
«Il secondo posto a Usa ’94, dopo la finale persa ai rigori contro il Brasile».

Gli azzurri arrivarono esausti, vero?
«Esatto e per un errore politico. Un anno prima aveva chiesto al presidente Matarrese di fare in modo di non giocare la fase iniziale a New York, dove a luglio ci sono 40 gradi e un’umidità del 100%. Non ci fu consentito. Andammo avanti in quel mondiale ma i ragazzi arrivammo a Pasadena lessati».

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Non vi perdonarono un secondo posto significativo.
«Nel paese del furbetti e del risultato ad ogni costo, figurammo come primi dei perdenti. E questo è un peccato non veniale».

Prima di parlare del Mondiale 94, i suoi ricordi più belli e la sua impressione sul presente. Il calciatore che fece sognare Sacchi quando era ragazzo, a Fusignano?

«Puskas. Molti anni dopo andai ad allenare il Real e Alfredo Di Stefano, che aveva giocato con Puskas, mi disse: “Ferenc era unico, a 40 metri dalla porta era più pericoloso di quando si trovava a sei-sette metri”».

Nei tempi moderni?
«Maradona, un giocatore al quale era permesso di essere egoriferito. ma di Diego ne nasce uno ogni 50 anni».

Sul presente del calcio italiano:
«L’Italia ha vinto con merito quattro mondiali e tante coppe europee con i club. Ma il calcio, e per decenni, non è stato visto come uno sport di squadra nel quale si deve offendere tutti insieme bensì come una disciplina individuale dove ci si deve soprattutto difendere».

Un esempio per attualizzare il concetto?
«Ho l’impressione che Motta, che è un allenatore molto bravo, nella Juve fatichi a estirpare il concetto secondo cui vincere non è importante ma è l’unica cosa che conta. Motta se la deve vedere con 50 anni di tradizione diversa dalle sue idee».

Il Napoli di Conte?
«Vive attraverso la ricerca del perfezionismo di Antonio».

E l’ottimismo della ragione di cui mi parlava all’inizio da dove le deriva?
«Da segnali importanti. Ho visto alcune partite della Lazio e sono rimasto colpito e affascinato dal calcio di Baroni, espressivo e mai individualista».

Vuole dire che il calcio italiano reduce da due mondiale saltati si sta davvero risvegliando?
«In parte sì. Si costruisce sempre con delle idee. Ora ne vedo qualcuna in giro: il Lecce ne sta proponendo di interessanti. Anche l’Empoli. Lo stesso Bologna post-Motta».

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