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Weah: «Vivevamo in diciannove in un appartamento. Ho venduto pop-corn per tre anni, poi il calcio mi salvò»

A France Football: «Persi il secondo Pallone d’Oro a causa di un pazzo razzista». Diede una testata al difensore Jorge Costa e gli ruppe il naso

Weah: «Vivevamo in diciannove in un appartamento. Ho venduto pop-corn per tre anni, poi il calcio mi salvò»
Gc Milano 13/03/2011 - campionato di calcio serie A / Milan-Bari / foto Giuseppe Celeste/Image Sport nella foto: George Weah

France Football racconta dell’incontro avuto con George Weah, ex presidente della Liberia (da gennaio 2018 a gennaio 2024). «In Liberia la gente mi chiama ancora. Ho solo 58 anni. Posso ancora fare un secondo mandato, lo voglio». «E oggi i bambini vanno a scuola gratuitamente. Le nostre strade sono ben costruite. Questo era il nostro programma. Non è stato un errore entrare in politica».

George Weah: «Arsene Wenger lo chiamo papà»

L’argomento per sciogliere il ghiaccio non può essere altro che il suo Pallone d’Oro vinto nel 1995. “Il sorriso solare si allarga rivelando denti perfetti. «Come?! Sono già passati ventinove anni da quando ho vinto questo trofeo?». L’intervista è partita. È stata una gioia immensa. Quando sono arrivato in Europa, non avevo nemmeno i requisiti. Questo premia tutto ciò che noi giocatori africani abbiamo realizzato. Provenire dal primo Paese indipendente in Africa (dal 1847) e diventare il primo (e finora unico) del continente a sollevare il trofeo, è una follia. Ciò che mi rende ancora più orgoglioso è aver utilizzato il mio Pallone d’Oro per promuovere la pace. Sono nella posizione giusta per dire che non si tratta semplicemente di una palla d’oro».

Quella di Weah è una vera impresa. È nato a Clara Town, una baraccopoli della capitale Monrovia. Ha vinto il Pallone d’Oro. Ed è diventato il presidente del suo Paese.

«Sono cresciuto in un vero ghetto, mio padre è morto quando ero un bambino. Eravamo in diciannove in un appartamento. Bisognava vederlo per crederci… Ma ci aiutavamo a vicenda, giocavamo sempre a calcio».

A 14 doveva già pensare a come provvedere alle necessità della famiglia. «Ho iniziato quando avevo 14 anni. Ero disposto a fare qualsiasi cosa. Chiedevo ai passanti: “Avete bisogno di qualcosa? Avete bisogno che i vostri vestiti vengano lavati? Posso occuparmene io. Poi ho fatto degli scambi con i nostri amici ghanesi che sono venuti in Liberia. Ho venduto popcorn per tre anni. E un giorno tutto cambiò».

A 15 arriva il calcio professionistico. Si offre di fare il portiere per i Young Survivors, che vivono nella baraccopoli. «Ma avevano già due portieri, quindi mi dissero: ‘Sei alto, giocherai come ala destra.’ Ho finito capocannoniere e non ho mai più giocato in porta!».  Con il tempo scala le diverse divisioni calcistiche in Liberia. Ma il calcio non gli permette ancora di mantenere la sua famiglia. In quel momento Weah “lavora ancora come centralinista per un operatore di telecomunicazioni“.

La svolta della vita arriva quanto incontra l’allora allenatore del Camerun, Claude Le Roy. «Devo così tanto a Claude Le Roy», ammette con tenerezza. «Era l’allenatore del Camerun, squadra in cui giocavano diversi miei compagni di squadra. Un giorno sono andato a trovarli».

Le Roy lo vide giocare. Di Weah disse: «Velocità, coordinazione, potenza… Un vero calciatore. Sono andato a dirgli che mi dispiaceva che non fosse camerunense…».  Weah riprende il suo racconta: «Claude aveva chiamato Arsène Wenger (all’epoca allenatore del Monaco). Quando ci penso, lo trovo pazzesco. Avrebbe potuto presentare qualsiasi giocatore della sua squadra, ma ha scelto me. Claude mi ha salvato»

Il debutto con il Monaco è devastante. Cinque gol nelle prime cinque presenze. «Ero già un giocatore completo, ma Arsène Wenger mi ha messo nella posizione giusta. Quando sono arrivato, mi ha detto: “George, a lato, devi dribblare tutti e portare la palla in porta. Da ora in poi, sarai un centravanti”. Lui è molto intelligente, ha visto che sapevo giocare con la testa e con entrambi i piedi. Mi ha insegnato tantissime cose. Oggi lo chiamo papà».

Dopo il Monaco, va al Psg. «Ho aspettato che i club italiani venissero a prendermi. Mi è stato segnalato un interesse da parte della Juventus. Ero felice perché sognavo quel club, ammiravo Platini. Ma erano solo voci. Appena mi hanno informato che il Psg voleva discuterne, mi sono detto: “Beh, almeno è lo stesso campionato, in una grande città, perché no?”».

Alla sua ultima partita con il Psg, i tifosi mostrano uno striscione razzista. “Weah, non abbiamo bisogno di te”, con croci celtiche al posto delle “O” e delle “S”, ricordando quelle del regime nazista. «Quando i tifosi sono infelici, a volte fanno di tutto. Ecco perché non ho detto nulla. Ho trascorso tredici anni in Europa, so che alcuni non capiranno mai. Non puoi controllare un intero stadio, né accusare tutti di razzismo. La cosa peggiore è quando l’avversario si comporta in questo modo».

Arriva al Milan, parla anche di Porto-Milan (1-1) del 20 novembre 1996, in Champions. «Ho perso un secondo Pallone d’Oro a causa di un pazzo che è venuto a insultarmi nello spogliatoio. Nei corridoi dello stadio Das Antas, Weah diede una testata in faccia al difensore Jorge Costa e gli ruppe il naso, prima di essere squalificato per sei partite europee».

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A Milano faceva parte di una squadra di mostri. Kluivert, Bierhoff, Baggio, Leonardo e altri. Weah segnò un gol alla Maradona contro l’Hellas Verona (4-1, 8 settembre 1996). «E pensare che in molti dicevano che l’Italia non avrebbe funzionato per me. Anche dopo aver vinto il campionato due volte (nel 1996 e nel 1999), ho sentito dire: “Segna solo dieci gol a stagione”. Avrei potuto calciare i rigori e diventare il capocannoniere del club. Ma per me non era questa la cosa importante. Lavoravo per la squadra». Nel 1999, l’arrivo di Andrei Shevchenko lo spinse ai margini della squadra.  «Sono andato in prestito al Chelsea perché Gianluca Vialli mi disse: ‘Stiamo cercando attaccanti, venite ad aiutarci’».

A 34 anni ritorna in Francia, al Marsiglia. Sacrilegio per i tifosi del Psg. “Dov’è finita la rivalità tra Psg e Om?” «Non gioco per quello».

Adesso pensa solo al suo ruolo di politico di altro profilo. “In attesa di una possibile rielezione nel 2029, lo statista tiene un occhio sulla politica, un altro sulle prestazioni del figlio Timothy, formatosi al Psg e passato al Lille, ora giocatore della Juventus“.

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