Nel tuo video alla Liberato facevi più bella figura a dire “ciao a tutti, vado a Parigi, lì si vive meglio, e mi pagano dieci volte di più”
Se ne è andato un altro di cui un giorno sapremo. Kvaratskhelia ci dirà la sua verità quando il tempo evidentemente avrà sanato le ferite dell’anima, chissà. O magari rispettando i tempi della prescrizione morale, sai mai cosa davvero si nasconde dietro il suo addio a gennaio. Kvaratskhelia, prima di prendere un volo per Parigi, ha guardato ben bene l’orizzonte: il Vesuvio; c’era il vento giusto, quindi ha indugiato pure su Sorrento. Ha fatto un salto a salutare il murale di Maradona ai Quartieri… una visita “intima”, “raccolta”, nel racconto sempre sobrio dei nostri giornali. L’addio cinematografico tradisce la solita estetica di questi anni fatti tutti a forma di Liberato, col cappuccio, il pantone dei grigi, la pioggia nello stadio vuoto e “scennimmo a Mergellin’ ‘e cinche d”a matin”.
E poi, infilata lì come un amo, la frase meno appariscente del discorso: “un giorno vi racconterò tutto”. Ve la siete persa nel fumo della nostalgia incombente (per alcuni), del livore (per altri) o del ma chi te sape (per una orgogliosa minoranza). Ma è li, se la notate è perché avete abboccato.
Cosa mai dovrebbe raccontarci Kvaratskhelia? Che cosa è successo? Cosa c’è sotto il suo addio, che non sia semplicemente il mercato del calcio nel 2024? Il professionismo: un’offerta migliore, la plusvalenza della società, una vita a Parigi eccetera eccetera. Al netto dei mille “cuore-amore” sparpagliati nel flusso sentimentale che evidentemente il tifoso medio merita di doversi sorbire ogni volta, perché non andare in conferenza stampa e – semplicemente – parlare? Hai qualcosa da raccontarci? Fallo, adesso. Che sarà mai?
L’ha fatto Antonio Conte (che pure nella sua infinita carriera ha sparpagliato capolavori di pizzini a mezzo stampa, di “chi vuole intendere intenda”): “Ha chiesto di andar via, ciao”. Non tenerci sulle spine, Kvicha: sì, lo sappiamo che qui stavi bene perché “i napoletani sono simili ai georgiani” (i napoletani, l’avrete notato, dove li metti stanno. Sono retoricamente aderenti ad ogni contesto, malleabili come il pongo)… ma di che altro ci volevi parlare? Su, spara.
E invece no. Un altro enigmista. Una diversa forma – deforme – della solita retorica del pallone. Quella che ammicca, perché è un tic. Uno spasmo, un riflesso condizionato. Quel dico-non dico che dico perché non ho niente da dire. È una cosa molto “italiana”, alla Stanis La Rochelle, che funziona in politica come nello spettacolo, ogni volta che c’è uno strappo, polemiche, iacovelle: eh quante cose avrei da dirvi, abbiate pazienza, diamo tempo al tempo…
Poi il tempo, che è galantuomo per cliché, in genere fa il suo mestiere: rarefa, disinnesca. Butta a scordare, come si dice. Per i più tignosi è una iattura: ce la leghiamo al dito. Non dimentichiamo. Torneremo a chiederne conto, inutilmente. Quando Kvaratskhelia avrà vinto il Pallone d’Oro ci sarà ancora qualcuno, da queste parti, che vorrà sapere: che è stato? Che ci dovevi dire in quel freddo gennaio del 2025 che hai dovuto tacere? Quando scade il segreto istruttorio?
Kvaratskhelia, peraltro, ignora (o molto più banalmente se ne fotte) che quel “un giorno racconterò tutto” è la sponda su cui batte la grancassa dei “traditi”. I degiovannisti che oggi gli danno del “cassettone”, o giù di lì. La deriva “magliettista” del tifo che prende tutto sul personale, considerando irrilevante l’economia di mercato. E però (dannazione!) dagli stessi professionisti che firmano contratti migliorativi perché è giusto così, ci aspetteremmo una solidità, persino un orgoglio: ciao a tutti, vado a Parigi, lì si vive meglio, e mi pagano dieci volte di più. Cosa c’è da giustificare? Ma soprattutto: perché mai dovresti?
Vorremmo dire anche altro, sul fastidio indotto dalla comunicazione sibillina, finto-furbacchiona, dagli occhiolini agonistici. Ma sai che c’è? Facciamo così: un giorno vi diremo tutto, pure noi. Guarda che meraviglioso panorama: c’è la neve, sul Vesuvio.