“Negli ultimi anni il calcio popolare, quello dei quartieri, è cresciuto. Ma è minacciato dalle stesse regole della crescita che hanno rovinato tutto”
“Un fantasma si aggira per l’Europa: il fantasma del calcio di quartiere”, scrive El Paìs. “Un calcio come quello di un tempo, dove i club appartengono ai loro membri, non è necessario testare la resistenza dei mobili di un bar sulla testa di un altro tifoso e lo stadio è l’epicentro di una comunità sociale al servizio del vicini, e non un’arma sonica contro di loro. Un calcio in cui realtà come il Club Esportiu Europa possano definirsi nei loro statuti antifascisti, femministi e contro il bullismo e l’omofobia”.
Insomma, Daniel Verdù elogia il calcio minore, nel quale i tifosi “ritrovano un’identità sicura dall’universo sempre più impersonale e perverso del business del calcio. Agli abbonamenti inaccessibili, ai maltrattamenti dei club verso i propri tesserati, ai fondi di investimento, ai fantasmi delle super leghe, ai soldi degli Emirati e dell’Arabia Saudita, al razzismo o al non poter vedere una maledetta finale della tua squadra senza dover acquistare un biglietto per la Mecca”.
“Negli ultimi anni il calcio popolare è cresciuto, illuminato da quel faro romantico dell’odio eterno per il calcio moderno. Anche per via di alcuni miti come la Stella Rossa parigina o, soprattutto, il St. Pauli, la piccola squadra di Amburgo che porta il nome del suo quartiere e che incarna ciò che un club può fare per la sua comunità”.
“Il paradosso di questo calcio, come di ogni impresa romantica, si esprime attraverso il suo successo nell’obbligo di ottenere più soldi per rispettare le regole imposte dal calcio professionistico. L’imposizione della crescita”.