Sul CorSera: «Per arrivare a Parigi ho gareggiato con infiltrazioni al ginocchio e antidolorifici. Ho avuto il rigetto dell’atletica. Ora la priorità è preservare il mio corpo per Los Angeles»
![Tamberi: «La botta di Parigi è stata troppo forte, a mia moglie ho detto: basta, ho chiuso!» Tamberi: «La botta di Parigi è stata troppo forte, a mia moglie ho detto: basta, ho chiuso!»](https://www.ilnapolista.it/wp-content/uploads/2024/11/tamberi.jpg)
Gianmarco Tamberi dopo la conferma a Sanremo che continuare a lottare per una medaglia a Los Angeles 2028, racconta al Corriere delle Sera tutte le sue sensazioni e tutto ciò che ha vissuto prima di arrivare a queste decisione.
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Tamberi: «Parigi il momento più buio»
Le parole di Tamberi:
«Proseguire dopo la batosta di Parigi è stata una decisione complicata. Ho attraversato mesi tremendi, non avevo il coraggio di pensare di rimettermi in gioco, tornare a sacrificarmi per lo sport. La botta è stata troppo forte. Mi sentivo smarrito, avevo perso la fiducia.
Ogni giorno cambiavo idea: smetto, continuo, smetto, continuo. Poi, a gennaio, ho notato che quando le dicevo che avrei proseguito a mia moglie Chiara veniva una luce particolare negli occhi. Ho deciso per noi. Chiudere con la brutta immagine di Parigi non sarebbe stato giusto. Certo c’entra la mia voglia di riscatto, però non è stata una scelta solo personale. Ho ripensato all’oro di Tokyo, la giornata più bella di tutta la mia esistenza. Un’emozione che dopo l’infortunio del 2016 mai avrei creduto di poter provare. Sembrava tutto impossibile, all’epoca. Ci voleva coraggio, e quel coraggio a Tokyo è stato ripagato.
Adesso l’obiettivo supremo diventa Los Angeles 2028. La priorità è preservare il mio corpo: sto facendo 5-6 ore di terapia al giorno per rimettere il mio fisico in condizione di affrontare i prossimi quattro anni. Parigi è stato il momento più buio. Per arrivarci ho gareggiato con infiltrazioni al ginocchio e antidolorifici: non potevo fare cure alternative o fermarmi, sennò avrei compromesso l’olimpiade.
Sto curando il mio corpo da ottobre. Non tornerò in gara prima dell’estate; poi al Mondiale di Tokyo all’aperto, a settembre, ci sarò. Prima però ho bisogno di capire come riuscire a rendere fattibile il percorso: nel nome di Parigi ho chiesto troppo a me stesso, mi sono consumato. Ho già 32 anni, tanta esperienza alle spalle. Oggi penso che per vincere a Parigi sarebbe bastato un pochino meno. Meno sacrifici, meno maniacalità. E invece ci ho messo tanto, tutto. Troppo. Rendere gestibile il viaggio per Los Angeles diventa la mia sfida. Ho paura, lo ammetto. Paura di andare avanti, stare male di nuovo, rischiare di non farcela. Mi è già successo.
La batosta di non essere a Rio 2016 ci ho messo anni a metabolizzarla, chissà quanto richiederà la botta di Parigi… Ho paura che possano di nuovo portarmi via il mio sogno. Mi aggrappo a ciò che mi ha insegnato l’atletica: amo il basket ma devo tutto al mio sport. E oggi sono capitano di un’atletica italiana giovane e motivante, a cui appartengo con orgoglio. Quando sono arrivato io in Nazionale ciascuno pensava solo per sé, oggi siamo una squadra vera. Giovanni Malagò in questi anni ha sempre creduto in noi, lo ringrazio. E la Federazione non ci ha fatto mancare niente.
Dopo Parigi ho avuto rigetto dell’atletica, del salto in alto, di tutto. Ho fatto cinque gare con un allenamento solo nelle gambe, ne ho vinte quattro tranne il Golden Gala, quella a cui tenevo di più. A Roma ho detto a mia moglie: basta, ho chiuso! Ho allontanato il team, non volevo intorno nessuno. Una volta guarito il corpo ricomincerò con Giulio Ciotti come assistente e guida tecnica e con un performance therapist, una figura professionale tipica dello sport americano».