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Grosso: «Io non sono il rigore del Mondiale 2006. Non ero Cabrini ma tutti si aspettavano che lo fossi»

A Repubblica. Da allenatore “insegno che in campo non bisogna mai pensare troppo: pensare rallenta il fare”

Grosso: «Io non sono il rigore del Mondiale 2006. Non ero Cabrini ma tutti si aspettavano che lo fossi»
Lyon's Italian head coach Fabio Grosso looks on prior to the French L1 football match between Olympique Lyonnais (OL) and FC Metz at The Groupama Stadium in Decines-Charpieu, central-eastern France on November 5, 2023. (Photo by JEFF PACHOUD / AFP)

Fabio Grosso, quello del rigore decisivo del Mondiale 2006. Ecco, lui non ne può più. “Non saprei più cosa dire. Io non sono quel rigore, ma la strada che mi portò a calciarlo e quella che ho percorso dopo, per allontanarmi dal dischetto. La seconda non è ancora finita”, dice intervistato da Maurizio Crosetti su Repubblica.

A 47 anni ora allena il Sassuolo. Di quella vita fa dice che “pensavo di non avere le qualità per stare tra i campioni, ma sapevo starci. Allenare è anche restituire un po’ della fortuna che ho avuto. Non ho voluto regali, mai vissuto di rendita. Non amo parlare delle cose ma farle. Ho smesso di giocare staccando tutto, ho spento di colpo. Qualcuno scriveva: Grosso vuole ritirarsi, e io l’avevo già fatto da sei mesi. Talmente in punta di piedi che non se ne accorsero. E non ho scritto libri, non ho fatto il talent televisivo. Sono rimasto sul campo con i ragazzi”.

“So di avere messo molto cervello e impegno nel mio modo di essere calciatore, però mi sono sempre chiesto: saprò farlo? Il problema è stata l’aspettativa generale: non ero Cabrini o Paolo Rossi, non ero Schillaci ma tutti si aspettavano che lo fossi. Per questo, non amo parlare del mio rigore a Berlino: è un pezzo del percorso, un episodio, ma quanta vita ho vissuto prima e dopo quel tiro. Se ne saranno accorti in pochi, pazienza”.

Da allenatore “vorrei che imparassero a resistere nelle difficoltà, che non si accontentassero di svolgere il compitino. Il timore della sfida ci sta, è umano, ma deve diventare coraggio. E in campo, mai pensare troppo: pensare rallenta il fare”.

“Davanti al bivio, ho quasi sempre preso la strada giusta: fortuna, ma non solo. Al debutto in A, a San Siro contro l’Inter stavo per segnare il gol del pareggio al novantunesimo: palo. Poi, contropiede dell’Inter, io faccio fallo e vengo espulso. Potevo crollare, in qualche modo sono rinato. E zero rimpianti: sono sempre stato me stesso”.

Da allenatore del Lione ha preso una bottiglia in faccia, poteva morire. “Gli ultrà del Marsiglia la lanciarono contro il nostro pullman: mi ero appena voltato per abbassare la tendina, e questo forse mi ha salvato la vita perché la bottiglia mi avrebbe centrato la tempia. Invece mi ha colpito sopra l’occhio sinistro: 15 punti di sutura. Quella volta ho capito cosa significa morire sul colpo, è tutto un istante, un bivio, ancora. Ieri mi hanno tolto altri tre pezzi di vetro, i francesi se li erano dimenticati…”.

Tornando a quel mondiale… “Il Times giudicò la mia impresa sportiva come l’ottava di tutti i tempi. La prima, il 10 della Comaneci ai Giochi di Montreal.n Però sono cose impossibili da paragonare. È stato bello, è stato. Le cose di prima non servono più”.

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