Efficace messinscena di Giovanni Meola che traduce la vita di Vincenzo Imperatore manager bancario che tradisce il sistema (e vent’anni della sua vita).
“Di-ret-to-re, di-ret-to-re”
“Di-ret-to-re, di-ret-to-re”. Il refrain resta in mente anche dopo qualche giorno. Perché occorrerà del tempo prima che lo spettacolo teatrale “Io so e ho le prove” scivoli addosso e vada via. Libero adattamento del libro di Vincenzo Imperatore ex dirigente bancario di Unicredit successivante pentito e, di fatto, traditore. Una storia farsesca, borghese, tragica, crudele.
È Giovanni Meola che mette in scena questo monologo, con splendida seconda voce, che ti entra nello stomaco e non ti lascia più. La seconda voce è Daniela Esposito, formidabile attrice e strumentista che accompagna il protagonista sottolineando con diversi suoni i momenti – ora grotteschi, ora drammatici – della vicenda.
Le cattive compagnie
Vicenda che comincia in un quartiere popolare di Napoli, dove la madre sottrae Enzo al pallone e alle cattive compagnie – delinquenziali o tendenti all’eversione di sinistra – e lo indirizza sulla strada dello studio, l’unica che può consentirgli di uscire dal vicolo, di salire sull’ascensore sociale. E di diventare, a sua volta, una cattiva compagnia. Una delle parole chiave di questo canovaccio.
“Di-ret-to-re, di-ret-to-re”.
Come “Vajont”
Sembra di vederle le piante che crescono nell’ufficio, l’acquario con i dipendenti, mentre lui, il protagonista, scala la gerarchia del colosso bancario vendendo polizze assicurative a imprenditori bisognosi di denaro e disposti a tutto pur di ottenerlo. L’orgoglio di mammà ignara delle concessioni che il figliolo fa alla sua seconda madre: mamma banca. Una sintesi crudele quanto efficace e ahinoi realistica del sistema creditizio. Esempio di teatro civile come quello che Paolini portò in scena tanti anni fa con la tragedia del Vajont. E che in tv qualcuno dovrebbe mandare in onda in prima serata.
In passato, soltanto Ricucci, in una memorabile puntata di Matrix, ha spiegato con altrettanta dovizia particolari il sistema bancario. Senza però, ovviamente, raggiungere le vette di lirismo di Meola che è abile, grazie a Esposito, a stemperare con note dissacranti.
Le sirene di Ulisse, la fascinazione del potere, la vanità, i soldi, tanti soldi e quel meccanismo che soltanto chi si è avvicinato alle stanze dei bottoni e ne ha avvertito la spietatezza può capire. L’ingranaggio perverso e subdolo del potere, raccontato come meglio non si potrebbe. Meola non fa sconti. Nemmeno al protagonista. Le convention con la musica degli U2, attori, cantanti, artisti e quella mano alzata, quel riconoscimento davanti a tutti. Il più bravo a vendere polizze. Il più bravo a incastrare i clienti. Che entravano in banca come si fa dal confessore, ignari o forse ipocritamente ignari. L’ego si gonfia e incassa.
“Di-ret-to-re, di-ret-to-re”.
Il tradimento
Meola non arretra, mentre lei scandisce i momenti chiave con i suoi strampalati quanto efficaci strumenti rudimentali e una mimica mai banale. Poi le marcette fanno posto a note gravi e solenni. Lehmann Brothers, la crisi, convention senza più gli U2 e il cambio della parola d’ordine. Non più “vendere vendere vendere” ma “rientrare rientrare rientrare”. Il pollo va sempre spennato, cambia solo il metodo.
Solo che nella lista dei “dead man walking” – dei clienti da mandare a morte sicura – c’è anche lei, l’unica cliente che Imperatore ha sempre risparmiato. La vedova di una vittima del racket, che si era sempre rivolta alla banca come all’unico luogo che potesse aiutarla a evitare la deriva familiare.
Il consenso sociale versus la propria coscienza. “E lo avrei fatto, mi sarei ingannato un’altra volta ma di fronte a quella signora non ce l’ho fatta”. E tradisce. Ma non la signora, con lei non ce la fa. Tradisce i suoi vent’anni, il sistema che gli ha garantito soldi e consenso sociale, il sistema di potere che lo ha reso, appunto, direttore. E la sua seconda madre, mamma banca.
Il Teatro Nuovo applaude per quasi cinque minuti.