E nce ne costa lacrime Milano a nuie napulitane… Una trasferta di lavoro che comporta la diserzione del San Paolo e l’impossibilità di vedere il match persino in tv secondo me è giusta causa di licenziamento con richiesta di risarcimento danni. Se dovessi beccare un pretore azzurro, la vincerei di sicuro. Comunque, penso, cerchiamo di prenderci il meglio da questa due giorni fantozziana. E così faccio.
Il fantastico Eurostar del caro amministratore Moretti arriva in Stazione di domenica alle 15, con solo un’ora e mezza di ritardo. Il mio sguardo è più o meno quello del tacchino alla vigilia del Thanksgiving. Il cellulare vibra e lo zio scrive: “Buona riunione”. Prendo la metro, raggiungo gli altri, una panoramica di sguardi. C’è un romanista che può capirmi: “Ahò, ma nun me credevo che venivi”. Neanch’io, rispondo. Mi siedo, faccio la persona perbene, due orecchie al contesto, un occhio al cellulare sulla diretta di Repubblica. La partita fila via come mi aspettavo. Bisogna avere pazienza, mi ripeto. Ogni tanto annuisco per far vedere che non mi assento del tutto. Trapani mi fa un resoconto dettagliato del primo tempo, non senza sottolineare che il mio juventino ha segnato. E figurati se non lo sapevo, però abbozzo e ringrazio. Ripresa. La riunione prosegue, io comincio a sudare freddo. Ma non per le sorti del giornalismo nel nostro Paese, è che me lo sentivo che Mazzarri a uno a uno avrebbe richiamato tutti i difensori per mettere quel po’ di attaccanti – o presunti tali – che abbiamo in panchina. Qua finisce male, mormoro. “No, no, non per il giornale”, dico a un interista vicino a me che capisce il mio dramma. Gli interventi si susseguono, il mio volto è sempre più concentrato. In realtà, comincio a realizzare che qua si va a oltranza. Non so se sarò in grado di reggere.
Poi, d’improvviso, il milanista chiama giro: si fa il break. Tutti si alzano, io no. Resto lì, fermo. Va bene anche un pareggio, scrivo dopo aver letto di una loro azione pericolosissima. Il cellulare non dice niente. Muto. E vabbè, allora a questo punto trasformo il coffee break in un salamella break. Un po’ taglio, un po’ mangio, un po’ controllo. Niente. Il milanista non chiama il rientro, sa bene che non potrebbe mai farmi questo. Poi, d’improvviso, il cellulare vibra. Una, due volte. Qualcosa è successo. Premo quel cazzo di tasto con un occhio chiuso e l’altro semiaperto. Mi appare subito lo zio: miracolo! E io sbatto il pugno contro il muro, sfanculo la salamella, esco e lo chiamo. Non prima di aver letto gli sms di Trapani: “Cavani ha segnato da casa sua, ha fatto un gol un po’ Elkjaer un po’ Mattheus” e di Roberto: “Un marziano, un ufo”. Vorrei gridare, bussare fantozzianamante a una finestra per farmi vedere il gol. Vorrei andare ad abbracciare la comunità uruguaiana di Milano, cercare via Montevideo e pernottare lì, all’addiaccio, gridando il suo nome fino all’arrivo di un’ambulanza. Non mollo lo zio finché non mi certifica il triplice fischio finale.
Sono una tigre in gabbia. Ma mi rassereno. Riesco a concentrarmi un’ora, poi non ce la faccio più. Devo vedere il gol. Corrompo il giovane interista che mi dice: ma qui non prende, dobbiamo uscire per vederlo. Guarda che io mi spoglio pure se vuoi. Sto fuori nudo con la neve. Lui capisce e si esce. Ma il cellulare non ne vuole sapere. L’interista non si arrende e mi viene a chiamare: è pronto. E io lo vedo: Grava salva sulla linea, poi gli danno la palla. Lui parte, forse ancora non lo sa dove vuole andare, ma parte. A destra, anzi no, meglio a sinistra, mmhhh non so, facciamo di nuovo a destra e poi tira una fucilata che io stavo svenendo. Strattono l’interista e quasi lo abbraccio. Figuriamoci quelli che lo hanno visto in diretta. La riunione è finita, andate in pace.
Il rosssonero Jacopo, in una Milano innevata, mi guarda col sorriso dei milanisti e fa: “Ma che fai, ci credete?”. Guarda, stronzo, che siamo a meno tre. “Sì, sì, ho capito, anche due anni fa stavate lì di questi tempi, che fai sei del partito di Roberto?”. Roberto è rimasto scolpito nella memoria del mio amico Jacopo perché in una fredda Milano di due anni fa, quando venimmo a perdere 2-1 con l’Inter, chiosò una discussione sulle ambizioni azzurre con una frase che è passata alla storia: “Ma ch’amma fa’ cu sta Cempions…”. Ecco, io oggi la penso come lui. Vabbè, il milanista capisce che non è aria, si rassegna e mi porta a mangiare alla Bocciofila, posto da dio in via Padova, il Maghreb di Milano. E poi un passaggio doveroso dalla terrona del Friuli, dove mi rivedo il gol di Cavani su un Mac 24 pollici ed esulto un’altra volta. (Sì, lo ammetto, ho visto anche il gol del Quaglia, ma al cuore non si comanda).
Torno a casa, e non so che fare. Non c’è tv, non c’è pc. Io e il letto. Allora tiro fuori la Gazza e fantastico sui numeri, studio, faccio congetture, penso a strani morbi che potrebbero mettere in ginocchio gli avversari. Nel frattempo si fa mattina. E comprare la Gazza a Milano e leggersela in un bar non ha prezzo. Davanti a me un altro con la Rosea aperta proprio sul paginone dedicato al Napoli. Ci guardiamo senza parlare e sentiamo meno freddo.
Seconda giornata di riunioni. Arrivo con la Gazza sotto il braccio, loro fumano e leggono il Financial Times. Mi si fa incontro un interista – non il giovane – con lo stesso sorriso del milanista: “Ma che fate, ci credete davvero?” E ride. Ci vediamo alla Befana, gli dico. E lui mi fa pat pat, come a dire: sì, sì, divertiti finché puoi. Vabbè, penso io, vediamo. Insomma, Milano ci snobba, non ci prende sul serio. Che sia rossonera o nerazzurra. Meglio così.
E allora io torno a casa, salgo sull’ennesima Freccia e ripasso la Gazza, perché qualche segno d’interpunzione ancora non l’avevo imparato a memoria. E mentre sto lì a guardarmi Cavani come avrei fatto con Brigitte Bardot, sento una vocina che dice: “Quello è Cavani?”. Sì, è Cavani, tu chi sei? “Io sono Pedro”, bambino di otto anni, napoletano di origine brasiliana. Una mezz’ora prima alla sua sorellina avevo prestato la penna del Napoli regalo di Pasquale Di Fenzo. Pedro mi fa un po’ di domande su Edinson, sul San Paolo, sul perché Milano ha due squadre e Napoli no, tutte queste cose qua. Finché io non giro pagina e lui legge il nome di quest’attaccante della Nazionale che qualche golletto in una squadra con la maglia bianconera lo sta segnando. E poi aggiunge con la sua vocina: “Sai, noi odiamo Quagliarella, a casa tutti odiano Quagliarella”. Silenzio. E poi mi domanda: “Pure tu lo odi Quagliarella?”. “No, Pedro, io non lo odio”. Lui mi guarda, si apre in un sorriso e non dice nulla. Mi fa segno con la mano, mi indica di guardare di fronte. E sorridiamo insieme di un signore che sta dormendo con la bocca aperta.
Massimiliano Gallo
Un tranquillo weekend
di paura a Milano
Massimiliano Gallo ilnapolista © riproduzione riservata