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Poletti parla del calcetto, all’estero di referral. L’ovvietà che scandalizza l’Italia

Sui campi di calcetto sono nati alcuni tra i rapporti umani e professionali più importanti della vita di tantissimi, altro che la solita montagna di master debolissimi.

Poletti parla del calcetto, all’estero di referral. L’ovvietà che scandalizza l’Italia

Cosa conta per la carriera

L’improvvido ministro Poletti si tuffa a capofitto in mare dalla cima delle Cliff of Moher credendo di trovarsi sul bordo innocuo di una piscina. Non è un gran comunicatore – almeno così pare vada di moda oggi bollare chiunque non sappia articolare un seminario di sociologia in centoquaranta caratteri. È improvvido e immacolatuccio e crede che l’Italia voglia sentirsi dire la verità, o semplicemente un banale fatto acclarato: che per lavorare e far carriera, qualunque essa sia, c’è bisogno di conoscenza e conoscenze.

La prima si deve acquisire con sacrificio e senso di responsabilità, quello che tende a mancare in una nazione in cui si chiudono diverse improbabili facoltà dai nomi esotici pure felicemente frequentate da giovani di belle speranze che poi si chiedono come mai i famosi sbocchi nel mercato del lavoro scarseggino.

Le conoscenze

Le seconde, ovvero i rapporti di fiducia e le relazioni professionali che si formano e si saldano nel tempo, servono a creare gruppo, a far da volano alle idee per incanalarle nelle direzioni giuste alimentandole nelle reti di relazioni più efficaci. È tanto evidente che praticamente tutte le aziende moderne hanno un sistema di referral – che è un termine più anglofono e dunque meno appariscente per la buona vecchia “raccomandazione” – per il quale non solo si richiede di segnalare persone capaci da ammettere nelle selezioni del personale, ma si paga un bonus al raccomandante se il raccomandato quelle selezioni le passa. Roba che Poletti è un vecchio reazionario al confronto.

La sollevazione social contro il calcetto

Ma ciò che più mi ha straniato è stata la reazione al cenno al calcetto nelle parole del ministro. La si è ritenuta una metafora quasi scabrosa quella che accosta il lavoro alla partitella settimanale con qualche amico. Il che mi induce a pensare che il gigantesco popolo dei social che ha largamente criticato questa frase, oltre ad essere votato alla più pervicace e lamentosa disoccupazione, non sappia neanche giocare a calcetto. Sia di quei popoli che comprano divise con nomi e numeri da usare come pigiami.

Non è necessario certo scomodare Camus – che non era un responsabile risorse umane eppure la toccava piano dagli undici metri quando sussurrava che tutto quello che sapeva sulla moralità e sui doveri degli uomini lo doveva al calcio – per riconoscere che un po’ tutti abbiamo appreso dallo stare in un campetto la necessità di rimanere assieme, di scorgere il movimento che farà il tuo compagno o il tuo avversario in anticipo leggendogli il linguaggio del corpo, degli occhi, delle mani anziché quello verbale. Aspetti fondamentali in qualunque lavoro.

La doccia in quegli spogliatoi di lamiera

Sui campi di calcetto sono nati alcuni tra i rapporti umani e professionali più importanti della vita di tantissimi, me compreso. Nulla allena al senso del dovere più del rinunciare alle mani e preferire la parola per persuadere il tuo attaccante fisso davanti alla porta, che cammina con l’indolenza di Cristiano Ronaldo pur avendo la media realizzativa del Pancev dell’Inter di Bagnoli, che magari sarebbe il caso tornasse in difesa anche lui ogni tanto a dare una mano.

E niente inizia alla curiosità per le ragioni altrui più del fare la doccia appena tiepida d’inverno in quegli spogliatoi di lamiera che il padrone del campo ha ricavato da due ex container merci che gli ha procurato un amico che dice di lavorare al porto, mentre spieghi il motivo per cui durante la gara hai passato indietro la palla essendo certo che il portiere fosse in porta e invece lì non c’era.

La montagna di master debolissimi

Insomma, il calcetto è una cosa seria. Non può morire sotto questa montagna di master debolissimi, di pile di specializzazioni inutili già nella vaghezza dei titoli, di percorsi di crescita che si intraprendono con lo spirito preadolescenziale di chi va a prendersi un titolo sgangherato che garantisca il diritto di pretendere un impiego. Forse il calcetto aiuterebbe a concentrarsi di più sul fare qualcosa – produrre, manutenere, rompere e rimontare. Tutta roba poco chic ma che no se mancha, come la pelota. Tutto sommato parlare con altra gente che impara a toccare una palla col piede può risultare più produttivo che compilare l’ennesimo quiz per l’ennesima prova finale che tanto finale non è. Meglio la finale vera del torneo del mercoledì sera.

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