Un film gestito alla perfezione, sin dalla scelta delle musiche. Una lezione anche per noi, vista la festa per i 90 anni del Napoli
Abbiamo tutti gli occhi ancora umidi dopo aver assistito al tributo umano e sportivo a Francesco Totti dentro e fuori lo Stadio Olimpico. Un momento di commozione collettiva che è andato al di là della fede calcistica e persino della passione sportiva, toccando corde emotive che in genere vengono sollecitate in altri contesti, più che nelle partite di calcio. Io non sono romanista, Totti non mi sta nemmeno tanto simpatico, ma, lo ammetto, mi sono commosso.
Pianto da cinema
C’erano tipi di emozioni diverse, da persona a persona: anche chi non è particolarmente appassionato di calcio, men che meno della Roma, non poteva non sentirsi trasportato, davanti alla tv, da quell’onda emotiva.
C’era un uomo di fronte alle sue paure.
E non aveva paura di confessarle, davanti a decine di migliaia di persone che lo avevano sempre visto come un mito inscalfibile, pur di fronte ai difetti e alle cadute, e piangevano con lui.
C’era un papà che teneva per mano il figlio per mostrargli, attraverso gli occhi umidi di quegli stessi tifosi, ciò che aveva fatto nella vita.
C’era un figlio che teneva per mano il suo papà e forse si rendeva conto per la prima volta di quanto fosse stato importante per un popolo intero.
Insomma, più che l’epilogo di una carriera sembrava il finale di un film.
Pianto da funerale
Quando muore un attore, un cantante, un personaggio famoso che ha accompagnato la nostra adolescenza ci prende quel groppo alla gola che non riusciamo a spiegarci.
A Napoli lo abbiamo vissuto di recente, purtroppo, con Pino Daniele.
Anche quando con la persona che se ne va non ci sono legami sentimentali diretti, anche se non la conosciamo di persona, non riusciamo a non essere tristi se in qualche modo ha fatto parte della nostra vita.
L’addio al calcio è un po’ come la morte, per un calciatore.
In altri contesti la fine del personaggio coincide, quasi sempre, con la morte dell’uomo. Raramente attori, cantanti, artisti si ritirano in giovane età.
Nello sport non è così: Totti è giovane, ma sa che non potrà più fare quella cosa per cui fino a un minuto prima era idolatrato dalle folle.
L’uomo sopravvive, il personaggio muore. Ed è lui che piangiamo. A prescindere dal legame diretto con la persona.
Piangiamo perché ci sembra di perdere una parte di noi, quella in cui risiedono tutte le emozioni che ci ha regalato. Moriamo un po’ anche noi.
E piangiamo perché pensavamo che quel personaggio potesse essere eterno mentre invece ci rendiamo conto che, come tutto, anche lui ha una fine.
E questo ci ricorda la precarietà (a scuola la chiamavano “caducità”) della condizione umana. Quindi anche la nostra.
…ma più ancora del tempo che non ha età,
siamo noi che ce ne andiamo.
(De André)
L’importanza della sceneggiatura
Eppure, quanto detto non spiega fino in fondo perché l’addio di Totti è stato così struggente, a differenza di altri. Per esempio, quello di Del Piero (o di Maldini o di Zanetti), che abbiamo vissuto in tempi recenti, sono stati toccanti, sì, ma non fino a questo punto. Eppure si trattava di bandiere delle rispettive squadre, esattamente come lo è stato Totti per la Roma. E allora?
Ci sono due fattori da considerare, a mio giudizio.
Il primo è nel carattere dei romani e dei romanisti, che con Totti hanno creato una sintonia che andava al di là del calciatore.
Totti incarna(va) Roma e i romani non solo nella partita, non solo nell’ambito sportivo.
Ma questo si sapeva.
Un fattore su cui invece sarebbe il caso di riflettere – ed è in fondo il motivo per cui ho deciso di scrivere questo articolo – è legato alla “sceneggiatura” dell’addio.
Con stile tutto sabaudo, l’addio di Del Piero fu annunciato da Andrea Agnelli in una conferenza stampa, in assenza del diretto interessato. Un taglio netto – tac! – e avanti il prossimo 10.
Seppur con modalità diverse anche quelli di Maldini e Zanetti erano annunciati.
Quello di Totti, invece, seppur ineluttabile, non è stato mai annunciato del tutto, se non negli ultimissimi giorni.
Non c’è stato il tempo di elaborare il lutto e tutto si è consumato all’Olimpico, peraltro con un cerimoniale impeccabile, in cui il numero 10 è stato davvero al centro della scena.
Nessuno ha parlato oltre lui. Pallotta si è limitato a un saluto veloce. Spalletti è stato in disparte tutto il tempo.
Ognuno ha recitato la sua parte e la stessa Ilary camminava un passo indietro, come le first lady.
La cerimonia è stata scarna ma piena di immagini simboliche: il quadro con la maglia, il regalo dei compagni, il passaggio di consegne della fascia di capitano, il pensiero per il bambino che gioca nei pulcini, la lettera.
Tutto è stato organizzato in pochissime ore ma tutto è sembrato perfetto e nessun momento stonato ha turbato l’elaborazione collettiva del lutto, con Totti che ad un certo punto, distrutto, si è abbandonato con lo sguardo perso nell’abbraccio della Curva, come se non volesse uscire più.
Compiti per le vacanze
Ecco, da tifoso del Napoli, mi piacerebbe che la società guardasse con attenzione quello che è successo all’Olimpico. Del resto, il rapporto con la nostra storia è sempre stato un problema. Non solo da quando c’è De Laurentiis.
Lezione di addii
Le grandi bandiere del passato remoto quasi mai hanno goduto di un addio all’altezza della situazione (Juliano, tanto per citarne uno, fu ceduto al Bologna anziché essere festeggiato a casa sua) e anche in epoche recenti i giocatori simbolo sono stati salutati in un modo che ha lasciato qualche perplessità. Taglialatela, diventato un peso, fu ceduto mentre eravamo in B. Sosa salutato col giro di campo dopo un bellissimo Napoli-Milan ma senza un vero evento. Io ero allo stadio e ricordo che le parole di commiato (sempre col presidente in prima fila) nemmeno si sentivano a causa dell’impianto audio. Parliamo di livelli diversi, certo, ma nemmeno ci si provò a organizzare un evento. C’è poi la partita di addio al calcio di Ciro Ferrara, con una maglia improbabile, che era attesa da tutti solo per il ritorno a Napoli di Maradona. Ah, già, Maradona: il suo distacco da Napoli, improvviso e doloroso, ce lo ricordiamo tutti… e ancora ci pesa sulla coscienza.
Vogliamo parlare di come sono stati celebrati i 90 anni della società?
O di come è stato onorato l’anniversario del primo scudetto?
Insomma, ammettiamolo: gli addii e le celebrazioni non ci vengono benissimo.
Abbiamo tanto da imparare.
I tifosi vivono di simboli e sorprende che un uomo come De Laurentiis – che per mestiere vende emozioni – non ci abbia ancora regalato una celebrazione strappalacrime come quella dell’Olimpico.
Lezione di personalità
Ma c’è anche un altro insegnamento che sarebbe opportuno assimilare in fretta (stavolta mi riferisco a squadra e staff tecnico) riguardando con calma la partita della Roma.
Non tutta. Bastano gli ultimi 7 minuti: dal gol del 3-2 in poi, in cui praticamente non si è giocato. Già dall’esultanza, i giallorossi puntavano a congelare la partita.
Ad un certo punto, la squadra, rendendosi conto che stava tornando in campo troppo velocemente, si è fermata e si è intrattenuta sotto la curva, come se fosse già cominciata la festa di addio per Totti.
Poi, ricominciata la partita, prima Nainggolan poi Totti hanno conquistato calci di punizione e corner in serie, rallentando ogni volta la battuta e guadagnando tempo fino al fischio finale.
In pratica, il Genoa non ha avuto neanche lontanamente la possibilità di provare a riportarsi in avanti.
Un’immagine su tutte: Totti ha passato gli ultimi istanti della sua carriera a difendere il pallone davanti alla bandierina del corner come fosse un giocatore di serie C. E non se ne vergognava.
C’era la vittoria da portare a casa, prima della festa d’addio.
LA LETTERA DI TOTTI ALL’OLIMPICO
«Ci siamo, è arrivato il momento.
Purtroppo è arrivato un momento che speravo non arrivasse mai.
In questi giorni ho letto tantissime cose su di me.
Belle, bellissime, ho pianto sempre tutti i giorni, da solo come un matto perché 25 anni non si dimenticano, così, con voi dietro le spalle, che mi avete spinto nel bene e nel male, nei momenti belli ma soprattutto in quelli brutti.
E per questo vi ringrazio tutti anche se non è facile.
Lo sapete che non sono di tante parole, però le penso.
In questi giorni con mia moglie ci siamo messi a tavolino e gli ho raccontato un po’ di cose, a cominciare dagli anni vissuti con questa maglia, con questa unica maglia.
Anche io ho scritto una lettera per voi, non so se riuscirò a leggerla ma ci provo e se non finisco, lo farà mia famiglia. Leggo perché sennò si fa tardi, io starei qua altri 25 anni ma so che è ora di cena e avete fame.Grazie Roma, grazie a mamma e papà, grazie a mio fratello, ai miei parenti, ai miei amici. Grazie a mia moglie e ai miei tre figli. Ho voluto iniziare dalla fine, dai saluti, perché non so se riuscirò a leggere queste poche righe. È impossibile raccontare ventotto anni di storia in poche frasi.
Mi piacerebbe farlo con una canzone o una poesia, ma io non sono capace di scriverle e ho cercato, in questi anni, di esprimermi attraverso i miei piedi, con i quali mi viene tutto più semplice, sin da bambino. A proposito, sapete quale era il mio giocattolo preferito? Il pallone ovviamente! Lo è ancora. Ma a un certo punto della vita si diventa grandi, così mi hanno detto e cosi il tempo ha deciso.
Maledetto tempo. È lo stesso tempo che quel 17 giugno 2001 avremmo voluto passasse in fretta: non vedevamo l’ora di sentire l’arbitro fischiare tre volte. Mi viene ancora la pelle d’oca a ripensarci. Oggi questo tempo è venuto a bussare sulla mia spalla dicendomi: “Dobbiamo crescere, da domani sarai grande, levati i pantaloncini e gli scarpini, perché tu da oggi sei un uomo e non potrai più sentire l’odore dell’erba così da vicino, il sole in faccia mentre corri verso la porta avversaria, l’adrenalina che ti consuma e la soddisfazione di esultare”.
Mi sono chiesto in questi mesi perché mi stiano svegliando da questo sogno. Avete presente quando siete bambini e state sognando qualcosa di bello… e vostra madre vi sveglia per andare a scuola mentre voi volete continuare a dormire…e provate a riprendere il filo di quella storia ma non ci si riesce mai? Stavolta non era un sogno ma la realtà.
E adesso non posso più riprenderlo, il filo. Io voglio dedicare questa lettera a tutti voi, ai bambini che hanno tifato per me, a quelli di ieri che ormai sono cresciuti e forse sono diventati padri e a quelli di oggi che magari gridano “Totti gol”.
Mi piace pensare che la mia carriera diventi per voi una favola da raccontare. Ora è finita veramente. Mi levo la maglia per l’ultima volta. La piego per bene anche se non sono pronto a dire basta e forse non lo sarò mai.
Scusatemi se in questo periodo non ho rilasciato interviste e chiarito i miei pensieri, ma spegnere la luce non è facile. Adesso ho paura. E non è la stessa che si prova di fronte alla porta quando devi segnare un calcio di rigore. Questa volta non posso vedere attraverso i buchi della rete cosa ci sarà “dopo”. Concedetemi un po’ di paura. Questa volta sono io che ho bisogno di voi e del vostro calore, quello che mi avete sempre dimostrato. Con il vostro affetto riuscirò a voltare pagina e a buttarmi in una nuova avventura.
Ora è il momento di ringraziare tutti i compagni di squadra, i tecnici, i dirigenti, i presidenti, tutte le persone che hanno lavorato accanto a me in questi anni. I tifosi e la Curva Sud, un riferimento per noi romani e romanisti. Nascere romani e romanisti è un privilegio, fare il capitano di questa squadra è stato un onore. Siete e sarete sempre la mia vita: smetterò di emozionarvi con i piedi ma il mio cuore sarà sempre lì con voi. Ora scendo le scale, entro nello spogliatoio che mi ha accolto che ero un bambino e che lascio adesso, che sono un uomo.
Sono orgoglioso e felice di avervi dato ventotto anni di amore. Vi amo».