Ovviamente in un lunedì del genere i peana si sprecano. Com’è ovvio che sia. Ho cominciato ad ascoltarli ieri sera alla Domenica sportiva, con Fulvio Collovati che sosteneva la tesi di Mazzarri il Mourinho italiano. Ho letto Gianni Mura, Antonio Corbo, Sconcerti, che è forse quello che sostiene la tesi più efficace. E cioè, detto in soldoni, che il ferro va battuto quando è caldo. Che questo secondo posto sarà pure frutto di una saggia programmazione, ma che sarà dura incastrare una serie di eventi positivi come quelli che si stanno succedendo in questa stagione.
Ma torniamo a Napoli-Lazio. Avevo paura, dunque. Perché l’avevo già vista la partita di ieri. Avevo capito tutto venerdì sera, avevo avuto un’illuminazione. D’improvviso mi è riapparsa la formazione che Reja avrebbe schierato. L’avevo letta la mattina, al bar, ma mi è tornata in mente solo in serata. Voleva giocare come quelle squadre che al suo Napoli davano sempre fastidio: una punta zanzara e due finte ali. Ma certo ho applaudito lo stesso per lui. Una scena d’altri tempi, di un calcio che non dimentica, con la curva che offre un mazzo di fiori. Un tempo, erano scene consuete. Mi sono commosso. E lo dico da tifoso che non ha mai amato il goriziano, ma ne ha sempre apprezzato soprattutto le virtù umane.
Ma non era solo la Lazio, c’era una strana atmosfera. La sentivo da Roma. E quando ieri mattina a Fuorigrotta ho assaporato quell’aria di festa, la mia paura è cresciuta. Sembrava una scampagnata, complice anche l’orario. E l’euforia mi spaventa.E poi avevo fatto alcuni collegamenti che ora non sto qui a dire. Insomma, quando Mauri è partito e l’ha messa dentro per me è stato solo un replay, una scena già vista. Ho assistito al match praticamente in religioso silenzio. Ma senza scompormi. Nemmeno dopo il due a zero di Dias. Perché avere paura non significa non crederci. Significa solo avere consapevolezza che le cose sono complicate, che non sarebbe stata una passeggiata di salute.
E quando Mascara si è mangiato il 3-2 ho pensato al peggio. E non ho tirato un sospiro di sollievo quando non hanno dato il gol a Brocchi. Che fosse gol l’avevo visto bene, fin troppo. E pensavo che quella sarebbe stata la pietra tombale sul nostro campionato. Ci avrebbero massacrato. Ce l’avrebbero fatta pagare. Non avremmo potuto più dire a. Aronica non lo sa, ovviamente, ma secondo me ha realizzato l’autogol più intelligente della storia del calcio. Sessanta secondi dopo la rete di Brocchi. Inconsapevolmente ci ha risparmiato gogne e processi. Quel gol sarebbe diventato il simbolo del campionato, altro che la mano di Robinho a Verona.
Tempo ce n’era e infatti il tempo è bastato. Il resto è storia. Un rigore che solo a guardarlo ci voleva coraggio, figuriamoci a prendere quella palla e poggiarla sul dischetto. Lui, come se niente fosse, l’ha persino calciato come se fosse un allenamento. E poi un gol che di quelli che non si dimenticano più.
Cavani, dunque. Il centravanti che non sembrava centravanti. Che a Palermo facevano giocare sull’esterno. L’attaccante voluto da Mazzarri. Già, Mazzarri. Ne parleremo tanto in settimana. Lo incenseranno. Hanno già cominciato. Ripeto, è l’uomo del Napoli che più è cresciuto quest’anno. Ha una solidità mentale che non vedevo da anni. Lui ha sempre saputo dove arrivare. Non stai lassù a sette giornate dal termine se non ce l’hai in testa dal primo giorno. Io non lo so, non so che pensare, so che ieri sul 2-2 mi venivano i brividi e le lacrime. So che c’è qualcosa nell’aria. E io quando sento qualcosa so solo stare in silenzio. A guardare.
Massimiliano Gallo
Aronica ha realizzato un autogol intelligente
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