Mamma mia, la sciarpa del Napolista. Me la recapita un messaggero alato, dono di cuore di Ilaria, ragazza forte e gaia, la Musa di questo sito senza confini. Una sciarpa, una carezza. Carezza azzurra, ala leggera di un angelo azzurro, fantasia azzurra. Se è seta, shantung, falpalà, lana caprina, fibra sintetica, nylon, acrilico non ha importanza.
La sciarpa palpita, è viva. Intessuta dalla passione di tutti i Napolisti, dalle emozioni della domenica, dai palpiti del “San Paolo”, da un dribbling di Lavezzi. Sciarpa per uno sherpa del cammino azzurro. Grazie. La sciarpa racconta la magia di un rito, la speranza d’essere un portafortuna, l’appartenenza a un piccolo esercito palpitante, la dichiarazione d’amore di una banda di disperati d’amore, strascico sentimentale della maglia azzurra.
Racconta un’idea nata dal cuore di una fanciulla azzurra, da una fata turchina degli spalti di Fuorigrotta, da una donna acqua, sapone e pallone. Collare di passione e amicizia. Morbida striscia di un sentimento infinito. Bandiera sottile di una fedeltà assoluta.
Alla sciarpa parlo della fungaia di ombrelli al “Vomero” nelle antiche domeniche di pioggia delle partite, dei balconi delle case che circondavano lo stadio della collina pieni di gente che sbirciava una sola porta (e spesso pagava mezzo biglietto ai proprietari di quelle “curve” approssimative), della mia amicizia col petisso, di quel primo gol fulminante di Vinicio, palla al centro e, in 40 secondi, bum nella porta del Torino. Le parlo del piedone di Jeppson, di Beppe Casari che parò un tiro di Praest sedendosi sul pallone col suo grosso didietro bergamasco. Le riferisco i racconti che mi facevano quelli che avevano frequentato l’”Ascarelli” e visto lo squadrone azzurro degli anni Trenta.
La sciarpa ondeggia, si rizza attenta alle mie parole, mi guarda, si curva e mi circonda, e sembra che dica “ancora, ancora”, perché vuole sapere di più. Perché è una sciarpa giovane, giovane e bella, candida con un filo azzurro, e vuole sentirsi importante assorbendo tutta la storia del Napoli, da Sallustro a Cavani.
Organizzo una atmosfera romantica, a lume di candela, il golfo è là, oltre il finestrone panoramico, un continuo respiro d’amore, accendo il sigaro immancabile, guardo la gigantografia del pibe e racconto alla sciarpa tutto quello che so, che ho visto, che ho vissuto e descritto in mille e mille “cartelle” ai tempi della Olivetti portatile, dagli stadi e in redazione all’epoca delle linotypes, del Comandante e di Monzeglio, delle invasioni di campo, più di rabbia che di festa, degli scudetti dopo sessant’anni di patimenti fra gloria e baldoria, battendo le nuove emozioni sul computer che non ha anima però è veloce.
La sciarpa è viva, ascolta, accarezzata dai racconti che condisco con la nostalgia della giovinezza e dei primi amori, le ragazze che portavamo alla Santarella, la stradina intima del Vomero oltre la villa di Edoardo Scarpetta, le ragazze che sbocciavano sotto i licei cittadini e lungo i viali della Villa comunale, tra un rinvio lungo di Vinyei, i calci spazza-tutto dell’emerita coppia Pretto-Berra, un gol decisivo di Ivo Suprina, jugoslavo sciupa-femmine che girava su una spider verde, e una follia di Roberto La Paz, mulatto uruguayano di due metri capace di dribblare se stesso, irrequieto per tempesta di ormoni, perciò chiuso a chiave in una stanza della Palazzina Rossa, la sede azzurra adiacente allo stadio vomerese, dalla quale si calava con una fune per le sue avventure notturne.
Racconto e racconto e la sciarpa si avvita di piacere, fa la languida, si stende, si rialza, mi prende al collo. Oh, cara. Abbiamo tanto da raccontare noi che siamo stati pirati e signori, professionisti dell’amore per la maglia azzurra. Dormiamo insieme, stanotte?
Mimmo Carratelli
E’ arrivata la sciarpa
le racconto il Napoli
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