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Arrivò in elicottero e rivoluzionò il calcio

Così, in punta di piedi, sommessamente, sotto il muro, come ormai bisogna camminare se non sei allineato al Travaglio-pensiero. E su questo sito che di Napoli e di calcio si occupa, poche parole per ricordare a qualche giovane che magari si dovesse affacciare chi è e soprattutto chi è stato Silvio Berlusconi per il calcio italiano.
Un signore smargiasso, a tratti insopportabile, guascone come pochi, che planò sull’italico mondo pallonaro con un elicottero. Accolto da sorrisini ma soprattutto da sghignazzi. Quelli che ovviamente la sapevano lunga si davano di gomito, benvenuto al pollo da spennare, alla gallina che avrebbe consegnato sui piatti della tavola imbandita dai soliti noti le uova d’oro. Konchalovski qui c’entra poco, c’entra un signore che non si è voluto uniformare nemmeno per un attimo alle direttive della gerarchia. Aveva i soldi, certo. Tanti, tantissimi. Ma non meno di quelli che anni dopo ha gettato il suo collega Massimo Moratti.
Ma torniamo indietro. Erano gli anni Ottanta, la Milano da bere, il calcio da noi era Platini e Maradona. Il Milan una nobile ormai decaduta. L’abatino, Gianni Rivera, non c’era più da quasi un decennio ed era tutto un galleggiare, persino con una retrocessione. I tifosi si stropicciavano gli occhi rimirando quel Milan-Ajax 4-1, con Rivera che finta e scucchiaia sulla testa di Pierino Prati. Come facciamo noi con Diego che la mette sul destro di Careca.
Berlusconi arrivò e, incurante degli altri, volle sulla sua panchina un signor nessuno, Arrigo Sacchi da Fusignano, un maniaco di calcio che aveva impressionato il Dottore in una partita di Coppa Italia tra il Milan e il Parma del tecnico romagnolo. “Venga, le affido il Milan”. Sarebbe bello ritrovare i commenti e le analisi dei dotti scienziati del pallone, a partire da Giuanbrerafucarlo. Non avrebbe dovuto mangiare il panettone quel presuntuoso cocciuto. Lui e il suo presidente ganassa. E invece, quell’estate del 1987 partì la rivoluzione del calcio. Più mondiale che italiana.
Ahimè, fummo i primi a pagarne le conseguenze. Arrigo mise Angelo Colombo a destra, Bubu Evani a sinistra, a centro volle tenacemente Ancelotti. Davanti aveva l’iradiddio Ruud e Pietro Paolo Virdis (Van Basten era infortunato, rientrò a poche giornate dal termine, contro l’Empoli e segnò di sinistra da 25 metri sbloccando una partita inchiodata sullo zero a zero). Poi c’era l’enfant prodige Donadoni. E una difesa che poi tutti abbiamo conosciuto.
Quella squadra ha vinto tutto. E ovunque. Ma si era lacerata. L’era Sacchi finì in un’infausta sera a Marsiglia, quando l’arroganza del potere conobbe il suo acme consegnando all’Italia una delle più grande figuracce che il nostro calcio ricordi. E quando tutti ne cantavano il de profundis, il presidente – quello che amerebbe solo i signorsì – ebbe un’altra invenzione. Perché non affidiamo la squadra a quel dirigente, quello bravo, quello che già cinque anni fa ci regalò l’Europa? Ma chi, Capello? Ma quello non vuole allenare, non l’ha mai fatto. È una follia. E follia fu. Tre scudetti consecutivi, quattro in tutto, una memorabile finale di Coppa dei Campioni col Barcellona di Crujiff strapazzato da Massaro e Savicevic.
Il resto è storia recente. Da Zaccheroni ad Ancelotti, senza dimenticare gli infausti ritorni di Sacchi e Capello, Tabarez. E poi Leonardo. Allenatore che si è rivelato inadeguato, come ha dimostrato anche all’Inter. Aveva ancora una volta ragione lui, ma non si può dire. Altrimenti non vi fanno entrare nelle loro case, non vi rivolgono più la parola.
Massimiliano Gallo

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