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18 maggio 2011, Ferlaino compie ottanta anni

Correndo, sfuggendo, andando e tornando, nel calcio e nella vita, costruendo, vincendo scudetti storici, per 33 anni, un mese e 12 giorni padrone, presidente, amministratore, azionista di riferimento e finto dimissionario del Calcio Napoli, Corrado Ferlaino, l’Ingegnere, è giunto al traguardo degli 80 anni. Hulp! Il 18 è il suo numero magico. Nasce il 18 maggio 1931, diventa presidente del Napoli il 18 gennaio 1969, vince il primo dei due scudetti nel diciottesimo anno di presidenza. Nella smorfia napoletana, il 18 è Arlecchino, l’artiglieria, l’acquisto (del Napoli, ovviamente), tutti riconducibili all’Ingegnere. Nelle ispirazioni del gioco del Lotto, però, il 18 è il sangue. E che vuol dire? Lui dice e non dice, ma fu a lungo preoccupato dalla maledizione che colpiva i presidenti del Napoli. Ne erano morti quattro alla guida del club azzurro: Giorgio Ascarelli, il primo grande dirigente; Egidio Musollino, che aveva un’industria di pelli e fu il presidente che assunse Monzeglio; Gioacchino Lauro; Antonio Corcione. Tutti deceduti fra i 40 e i 50 anni. Se ne preoccupò Ferlaino quando attraversò quella età. Un giorno confessò: “La poltrona di presidente del Napoli mi fa paura. Una volta abbandonai una corsa automobilistica perché un gatto nero mi aveva attraversato la strada”. Ma da perfetta salamandra pezzata, in grado di sopravvivere al fuoco, l’Ingegnere sopravvisse molto bene alle morti dei predecessori e al fuoco intenso che per molti anni divampò nel Napoli. Ed ora eccolo qua, il vecchio ragazzo che non si arrende e cavalca la vita come cavalcava la tigre azzurra (così definì il Napoli: una tigre), ballando di gusto nelle notti musicali perché gli piace ballare, lontano dal calcio ormai, ma continuando a costruire, incapace di stare fermo da quando scorazzava in moto per le strade del Vomero.
“E’ questo il mio carattere. Molti pensano che io sia sfuggente. Non è vero. A scuola prendevo sette in filosofia e mi definisco un teorico del divenire. Spesso mi sfugge il presente perché mi sto già arrovellando sul futuro”. Aggiunge, ma toccando ferro: “Anche quando sarò nella bara avrò molte cose da fare il giorno dopo”.
E’ partito per Rio de Janeiro con Roberta Cassol, la donna deliziosa che l’ha finalmente ammansito, pronto a ballare il samba e la capoeira, la danza che “fotografa” meglio la sua vita: attacco, difesa, contrattacco. La vita come un match continuo e tutta di corsa (campione italiano granturismo nel 1963). Auto sportive, brevetto di pilota d’aereo e conduttore di filanti offshore lanciandone uno sulle onde del mare da Napoli a Barcellona quando sfidò le insidie del Golfo del Leone, un’altra volta scampando a un naufragio al largo di Stromboli.
“Sono nato in via Arcoleo e vi sono rimasto sino a due anni. I miei cambiavano casa continuamente. Andavamo ad abitare nei palazzi che mio padre costruiva. Mio padre ha costruito il trenta per cento delle case del Vomero. Ho abitato in via Bernini, in piazza Leonardo quando avevo sei anni, in via Scarlatti, al Rione Carità, anche qui mio padre aveva costruito. Poi ho abitato a Villa Gallotta, in via Crispi, al Corso Vittorio Emanuele e ora in via Carducci”. Scaramantico, ovviamente, nella migliore tradizione napoletana e nel trionfo di corni di corallo e di argento che una volta arredavano il suo studio di Ingegnere e Presidente del Napoli accanto alla presenze borboniche (i piccoli busti in bronzo di Ferdinando e Maria Carolina), a un Pulcinella col tipico sberleffo, a piccole streghe di pezza, a un pupazzo con tanti spilli conficcati addosso, residuo di una magia nera dell’Ingegnere, a un Maradona di ceramica che ballava il tango con Van Basten piegando il calciatore olandese del Milan, avversario dell’argentino e del Napoli al tempo degli scudetti, nella classica figura del casché.
Lo ricordiamo alla sua prima apparizione nel Napoli. La sede azzurra era in via Chiatamone, grandi saloni, grandi debiti e grande vista sul golfo. Era il 23 gennaio 1969. Arrivò impeccabilmente vestito e rasato di fresco dal barbiere di fiducia di via Andrea d’Isernia. La sala era illeggiadrita da corbeille di fiori. Non promise acquisti (il campionato è in corso), non annunciò meraviglie, fece quasi un discorso di lacrime e sangue alla maniera di Churchill.
Fece un sorriso stirato di commiato. Abbassò la testa e se ne andò. Velocemente, finalmente libero dalla tortura d’essere rimasto seduto una ventina di minuti, attorniato dai giornalisti. Non uscì a passi studiati e presidenziali. Corse via. Corse girandosi di qua e di là per una dimenticanza, per salutare frettolosamente chi gli porgeva una mano, un’ultima domanda, un richiamo di arrivederci. In partenza, una trottola.
Ricorda: “Il Napoli era un caos. Aveva persino due allenatori. Me ne accorgo quando incontro Parola in una trasferta e lui mi dice piacere, presidente, sono Parola, l’allenatore del Napoli. Io gli dico ma non è Chiappella l’allenatore? E lui, sorpreso della mia sorpresa: siamo in due. Così mi dice, come se fosse la cosa più naturale del mondo. La prima cosa che feci da presidente fu quella di incontrare Juliano che era il giocatore più rappresentativo. Ci vediamo in un bar di via Orazio. I giocatori non sono pagati, mi dice. A me le banche chiudono le porte in faccia, gli rispondo. Poi comincerò ad appianare le cose. L’unico che viene da me e non chiede soldi è Montefusco. Però mi dice che vuole una Porsche. Dice anche il colore: aragosta. Io non capisco. E lui mi spiega che la Porsche gli è stata promessa da Gioacchino Lauro. E io che c’entro?, cerco di svicolare. Alla fine ci mettiamo d’accordo. Gli pagai mezza Porsche, l’altra metà se la pagò lui”.
Questo fu l’inizio di un regno sul quale sembrava non dovesse mai tramontare il sole. E, invece, il sole tramontò quando il calendario segnò la data irrimediabile del 14 febbraio 2002. Aveva preso il Napoli quando aveva 38 anni, lo lasciò che ne aveva 71. Discese per l’ultima volta la stradina del Campo Paradiso su un’auto giapponese per l’addio che lo rese umano nel suo dolore sincero, nella sconfitta cocente, nel commiato con gli occhi lucidi.
Alla fine della gloria e dei tormenti, se ne andò il presidente degli scoponi scientifici con Ottavio Bianchi e dei viaggi africani (il deserto del Namib, la spiaggia di Watamu, in Kenya, di fronte all’Oceano Indiano, tre ore a bordo di un Piper per sorvolare il Ngorongoro, un vulcano spento che ospita bestie feroci, il suk di Marakesch, l’itinerario di suggestione di Lawrence d’Arabia), della passione per le Crociate e del fascino di Gerusalemme (“la città che più amo”). Africa, calcio, donne e motori.
Oggi i rifiuti per le strade richiamano il ricordo del 1975 quando quattro giorni di scioperi degli spazzini comunali ridussero la città a un immondezzaio. L’ispettore dei netturbini Ferdinando Musto declamò: “Basterebbe la metà dei soldi spesi per Savoldi per pagare tutti i nostri stipendi”. La clamorosa vicenda si trasformò in una memorabile giocata al Lotto: 2 i miliardi, 26 il pallone e 70 l’immondizia.
Dice Ferlaino: “Sono un grande peccatore, ma posso andare tranquillamente all’inferno. Guarderei in faccia i diavoli senza timore perché ho fatto il presidente del Napoli che spesso è stato un inferno anche con due scudetti. Avrei voluto essere spiritoso, raccontare barzellette, socializzare. Il mio alter ego viveva in un sacco a pelo lontano da tutti. Ma la presidenza del Napoli deve essere una torre eburnea. Guai a essere simpatici. La torre crolla. A Napoli essere distaccati è un obbligo. Non avrei resistito tanto se non avessi creato una barriera tra me e la gente”.
Doveva mollare dopo il primo scudetto. L’aveva promesso pubblicamente. “Sul punto di vincerlo mi lasciai andare. Dissi proprio di sognare la scena. L’arbitro fischia la fine, il Napoli è campione d’Italia e io, ancora giovane, fuggo su un’isola deserta con quattro splendide ragazze. Dal primo anno ogni tanto ho giurato di lasciare. A un certo punto mi trovai nella situazione di smettere di giurare o di fare il presidente”.
Una lacrima sul viso l’ultimo giorno di luglio del 1995, in via Allegri a Roma, sotto la sede della Federcalcio. I conti del Napoli erano fuori regola e c’era il rischio concreto che la squadra non venisse iscritta al campionato successivo.
Era mezzogiorno. L’Ingegnere, abbronzato e scamiciato, arrivò di corsa. Si infilò nel palazzo della Federcalcio e salì al piano dove erano riuniti i grandi capi del pallone. In ballo le sorti del Napoli. Alle tre e mezzo del pomeriggio, scosso, stravolto, pallido, col pianto in gola l’Ingegnere apparve in strada. Singhiozzò, farfugliò: “Il Napoli è salvo”. Riprese fiato e parlò con una felicità incontenibile: “Ci sono scudetti e scudetti. Questo dell’iscrizione al campionato, in una situazione difficile e disperata, è proprio uno scudetto. Non chiedetemi di più. E’ stato un miracolo”. Quello che si seppe fu che una lettera della Federcalcio alla Lega autorizzava quest’ultima ad anticipare al Napoli i crediti della campagna trasferimenti che sarebbero dovuti figurare nel bilancio dell’anno dopo. Un abuso d’ufficio? Un trucco contabile? Una solidarietà al di là del bene e del male? Il frutto dei buoni rapporti che l’Ingegnere aveva col Palazzo? Altri tempi, all’epoca della prima repubblica del pallone. Il mondo è cambiato e il tempo è volato via. Ottant’anni. Auguri, presidente.
Mimmo Carratelli

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