Tante volte ho chiesto a mio padre di portarmi al San Paolo, a vedere il Napoli. Per amore e scaramanzia, ha sempre trovato delle scuse. Poi però è andata bene.
Il mio primo “giorno”, in realtà, non fu all’improvviso: erano mesi che cercavo di convincere papà a portarmi allo stadio con lui: quel giorno arrivò quando avevo quasi 10 anni, in una partita di Coppa Italia (all’epoca, le qualificazioni di Coppa erano il debutto quasi “rituale” dei ragazzini, secondo forse solo al Torneo Anglo-Italiano che si svolgeva a fine campionato). Mia zia Elisa abitava al Rione Lauro e quando, da Chiaia, la si andava a trovare era inevitabile passare davanti a quella costruzione imponente. Fino ad allora ero entrato “al campo” con la fantasia, grazie ai racconti di mio padre che terminavano sempre con la descrizione di Sivori, delle sue finte e dei calzettoni abbassati alle caviglie (lo amava moltissimo, solo dopo il primo scudetto papà ammise che sì, forse Maradona era più forte). Ed io, ogni volta, ogni volta: papà quando mi porti a vedere il Napoli?
Amore e scaramanzia
Le sue risposte erano diverse, a loro modo convincenti. Ora fa troppo freddo, ora fa troppo caldo, c’è troppa folla, c’è poca gente non ti farebbe emozionare, sei ancora piccolo e non vedresti bene, ti annoieresti perché la partita è lunga… E finivano sempre con vabbuò, la prossima volta vediamo. Le sue erano scuse veritiere solo in parte. In realtà, papà era scaramantico e mi voleva troppo bene!
Aveva paura, infatti, che il mio debutto potesse coincidere con una sconfitta e per lui sarebbe stata una duplice sciagura: da un lato, poteva significare che “portavo male” al Napoli (a mia madre, ospite al debutto di una sfortunata sconfitta casalinga, ciò costò l’ostracismo totale dal S. Paolo per il resto della vita… esteso anche alla televisione e alle partite della Nazionale!); dall’altro, assistere a una sconfitta del Napoli poteva essere per me una delusione troppo cocente, assolutamente da risparmiarmi (anche per evitare che il dispiacere subito potesse avvicinarmi al tifo per altre squadre, iattura massima).
La prima volta
Per cui, evidentemente, quella partita di fine estate con un avversario di modesta caratura e a qualificazione, mi pare, già arrivata era perfetta per l’obiettivo. Già nel mezzo di quella settimana, quindi, ero stato messo sull’avviso e quando comprammo il biglietto non smettevo più di guardarlo e riguardarlo, cercando di immaginare ciò che avrei visto di li a qualche giorno.
Ma, nonostante fossi un bambino di una certa fantasia, non ero riuscito a immaginare quasi nulla delle tante sensazioni che provai quel pomeriggio.
Innanzitutto i colori. Il verde di un prato enorme, un verde assoluto di un enorme assoluto, a cui noi bimbi di città non eravamo abituati. Il mio “verde” massimo, allora, era quello della Villa Comunale, peraltro priva di grandi prati, o quello della vicina Villa Pignatelli (dall’ingresso a pagamento, per cui poco fruibile per noi) la cui aiuola centrale era ciò che all’epoca io pensavo si avvicinasse di più al concetto di “prateria”. Tutto quel verde, che giungeva quasi improvviso dopo le poche scale salite e superate le piccole porte di ingresso agli spalti, era straniante, stordente, ammaliante; così come il sole che, dal lato Distinti, accecava la vista rendendo d’obbligo proteggersi con le mani (“a’ visiera, chi vò a visiera”, costava 10 o 20 lire).
Così come le voci: cento, mille, diecimila, trenta/quarantamila – credo che tanti quel giorno fossero gli spettatori – che formavano una musica nuova alle mie orecchie, la voce del “campo” (dopo averlo visto, capii perché papà lo chiamava così …). Ad appena dieci anni, chi aveva mai visto e sentito parlare insieme tante persone. E la familiarità. Quante volte, quel pomeriggio, chiesi: ma quel signore è tuo amico ? No, era la risposta, ma qui al campo parliamo sempre tra noi tifosi, siamo tutti amici, vedrai che festa quando segna il Napoli.
La maglia azzurra
Poi, infine, la maglia azzurra, bellissima. Per me, ancora oggi, la più bella che c’è, forse paragonabile solo a quella dei blancos o alla camiseta argentina. Era indossata da calciatori che avevo visto prima solo sulle figurine: Altafini, Zoff, Sormani, Juliano, Pogliana. Della gara non ricordo molto, se non il boato e l’esplosione di felicità, impressionante, estatica, dopo ogni gol. E il sorriso felice di mio padre, che, mentre uscivamo, mi disse: “bravo Giuà, hai portato bene”.
Era il pomeriggio di domenica 13 settembre 1970, Napoli-Catania e, fortunatamente, finì 2-0 (Improta su rigore e Altafini). Altrimenti papà “al campo” non mi ci avrebbe portato più. Invece, da allora, ci sono andato ininterrottamente per vent’anni e più. E, ora che vivo lontano, quando posso ancora scappo “al campo” (la prossima contro il Chievo). Sperando sempre – in cuor mio – “di portare bene”.