Il manager della Liga torna a parlare del prodotto Serie A, fra deprezzamento, stress salariale per i club e problema-stadi. E punta il dito contro Sky.
È tornato a parlare Javier Tebas, il numero uno della Liga, e lo ha fatto sulle colonne della Gazzetta dello Sport. Un’intervista i cui temi spaziano dalla partita dei diritti televisivi, sul deprezzamento dei brodcaster del prodotto calcio Serie A fino alla questione-stadi (e ai fenomeni di violenza).
L’uomo di Cairo
Tebas è al quinto anno alla guida del campionato spagnolo, che è riuscito valorizzare puntando anzitutto alla vendita collettivi dei diritti televisivi domestici. Incrementando gli incassi del 30%. Era l’uomo di Cairo per traghettare la Serie A verso nuovi lidi, prima del dietrfront. Ma Tebas nel calcio italiano ci crede eccome: «Paragonando l’industria calcio italiana con quelle di altri Paesi come Spagna, Inghilterra o Germania ci si rende immediatamente conto che il margine di crescita della Serie A è amplissimo. Col numero di abitanti, col ratio di penetrazione della tv a pagamento, con lo spettro di clienti appassionati al nostro sport, il calcio italiano deve per forza raccogliere molto di più. Deve fare molti più soldi».
Dieta personalizzata e stress
Sul fronte dei diritti spendibili per l’estero, Tebas appronta per la Liga una cessione personalizzata, Paese per Paese, del prodotto audiovisivo. Strategie geolocalizzate, mirate, perché come ricorda «noi per esempio come Liga all’estero abbiamo 70 contratti differenti».
I passaggi più interessanti toccati da Tebas riguardano il rapporto (negativo) fra salari e introiti dei club italiani, a scapito di una miglioramento degli asset infrastrutturali: « Il rapporto tra massa salariale e introiti nel calcio italiano è molto ‘stressato’. La Serie A in questo senso è il campionato che ha il rapporto peggiore, seguito dalla Premier League e poi da Liga e Bundesliga. Quando utilizzo il termine stressato intendo dire che nel calcio italiano si sta spendendo in salari più di ciò che si dovrebbe e che parte di quel denaro andrebbe investito nel rinnovamento delle installazioni e nel miglioramento delle strutture. Ovvero quei fattori che contribuiscono in maniera significativa all’incremento degli affari di un club. Se abbassi la massa salariale puoi investire in settori che ti faranno incassare di più. In questo modo potrai alzare di nuovo gli stipendi».
Fra curve e entertainment
Immancabile l’accenno ad uno dei punti di criticità ormai atavici del calcio tricolore, vale a dire la questione-stadi. Un falso problema per Tebas, che vede negli accordi di concessione a lungo termine degli impianti da restaurare una soluzione possibile, auspicabile: «Che gli stadi non siano di proprietà non deve rappresentare una scusa perché non vengano avviati processi di ristrutturazione». Sull’esperienza stadio per i tifosi, dopo gli ultimi dolorosi eventi di Liverpool, il manager oppone il modello di intrattenimento all’americana. Consiglia di puntare su «un modello di ozio ed entertainment. Gli stadi devono essere luoghi di concordia e divertimento, non di lotta, aggressione e violenza verbale. Occhio, questo non vuol dire che non si faccia il tifo o che non ci sia ambiente, tutt’altro. Solo che vanno eliminate provocazioni, insulti e violenza. Fattori che evidentemente non permettono al nostro spettacolo di crescere”.
Monopolio Sky
L’intervento sulla rosea si chiude sulla querelle Mediapro-Sky. Tebas, che con Roures – numero uno di Mediapro – ha fondato la Spanish International Marketing, non ha dubbi su chi puntare il dito: «Se Sky volesse davvero che il calcio italiano crescesse come dovrebbe si sarebbe seduta a un tavolo con Mediapro e la Lega per elaborare una strategia e un progetto comune per il futuro. Le società italiane si devono chiedere come mai Sky, cinque mesi prima del bando per la Serie A, abbia alzato il prezzo per i diritti della Champions ribassando poi di quasi 200 milioni quello per il prodotto nazionale».
«Poi si devono chiedere – prosegue – come mai una volta entrata Mediapro, Sky abbia mostrato disponibilità ad offrire più soldi e a lottare per recuperare i diritti perduti. Non ha senso. I club italiani, come abbiamo fatto qui in Spagna, devono capire che questo dev’essere un business per tutti. Non solo per uno dei protagonisti. E non devono credere al messaggio secondo cui l’operatore televisivo non è in grado di pagare di più».